The Invitation
Il ritorno in grande stile di Karyn Kusama con un thriller soffocante tra paranoia, ossessioni e derive settarie
Basterebbe il clima opprimente di paranoia che impregnava il fumoso bad trip di Vizio di forma di Paul Thomas Anderson per rendersi conto di quanto, dagli anni Sessanta in poi, il timore strisciante e la diffidenza cronica per le sette si fossero impossessati radicalmente dei nostri incubi e del nostro immaginario.
Allora erano Manson e la sua Family, coi loro deliri omicidi e messianici, a terrorizzare le coscienze e insozzare i sogni infranti di un’intera generazione; molti altri, negli anni a venire, ne avrebbero raccolto la drammatica eredità, nutrendo paure e ossessioni sempre più profonde e radicate nelle nostre rappresentazioni collettive.
É proprio la paranoia, questa paura mai sopita fatta di diffidenza (e pregiudizio?) ad ammantare, gradualmente ma inesorabilmente, tutta la vicenda di The Invitation e a colorarla di un angosciante e frustrante senso di ambiguità.
L’invito a cena di Eden (Tammy Blanchard), un grave lutto alle spalle e tanta voglia di ricominciare a vivere, riallacciando i rapporti con amici e vecchi compagni, è davvero innocente come sembra? I suoi nuovi amici e i loro discorsi un tantino new age su morte e rinascita sono realmente innocui come vogliono far credere? É tutto nella testa di Will (Logan Marshall-Green), invidioso della ritrovata felicità della sua ex moglie, o c’è davvero qualcosa che non torna in tutti quegli sguardi furtivi, in quei silenzi imbarazzati, in quei sorrisi così innaturali?
Da tempo si sentiva la mancanza di una regista come Karyn Kusama, e sicuramente non per via di enormi pasticci come Aeon Flux o di scialbi orrori adolescenziali come Jennifer’s Body. L’autrice un tempo rivelazione per Girlfight torna infatti a un cinema intimista e passionale ritrovando il suo tocco in un dramma da camera capace di spaziare dal thriller psicologico all’horror d’assedio, in un impeccabile e hitchcockiano meccanismo a orologeria, mutevole e ambiguo come i protagonisti che lo popolano.
Non che l’idea della setta non avesse già avuto i suoi film di riferimento: dal recente The Sacrament di Ti West indietro fino al (s)cult Mangiati vivi! di Umberto Lenzi – entrambi ispirati alla tristemente nota vicenda di Jim Jones e al massacro di Jonestown – queste degenerazioni pseudo religiose avevano già mostrato il proprio terribile lato oscuro, tanto congeniale a rappresentazioni più o meno orrorifiche e più o meno riuscite.
Eppure The Invitation ha il grande pregio di non mettere mai, fino all’ultimo, le carte in tavola, di ambientare il tutto in un contesto estremamente familiare e rassicurante e di creare, passo dopo passo, inquietudine dopo inquietudine, un clima soffocante di angoscia e di pericolo imminente.
Mai come in questo caso paiono leciti gli accostamenti al cinema paranoico e ossessivo per eccellenza, quello del Polanski di Repulsion e, soprattutto, di Rosemary’s Baby, un cinema in bilico tra menzogna e realtà, depistaggi e frustrazioni, in balia di uno sguardo incapace – almeno fino all’agognato, apocalittico, disvelamento finale – di discernere la verità dalla follia e di risolvere quella frustrante, infinita dialettica tra dimensione soggettiva e oggettiva che ne ammorba gli ingranaggi e ne costituisce la segreta, più intima forza.
Inoltrandosi negli abissi di menti infelici e turbate, perdendosi in un\'incertezza di prospettiva destabilizzante, The Invitation colpisce nel segno, costruisce, tassello dopo tassello, la propria malia perturbante, trovando, infine, anche il tempo di riflettere, nemmeno troppo banalmente, su depressione ed elaborazione del lutto ai nostri giorni, su quell’illusorio quanto catastrofico desiderio di felicità a ogni costo di chi, cercando la pace, trova, spesso e volentieri, solo follia e disperazione.