We're All Going to the World's Fair
Presentata al Sundance, l’opera prima di Jane Schoenbrun è un ipnotico horror sull'estraniazione dal mondo fisico e sulla potenzialità salvifica della dimensione virtuale.
Esiste un’opera d’arte che, in maniera del tutto sorprendente, sembra attirare a sé le nuove generazioni di appassionati più di ogni altra opera contemporanea: è Live-Taped Video Corridor (1970) dell’artista statunitense Bruce Nauman, noto per l’incessante esplorazione dei propri confini corporei - e della dimensione performativa di questi in relazione allo sguardo altrui - che contraddistingue la sua personale ricerca artistica sin dalla metà degli anni ’60.
Nell'installazione, lo spettatore è invitato ad attraversare un corridoio lungo 10 metri e largo 50 centimetri, il cui perimetro è dettato da due alte pareti bianche. In fondo a questo, in basso, si trovano due monitor uno sopra l’altro: quello inferiore trasmette una ripresa del corridoio, vuoto, visto da una videocamera che si trova all’entrata, a più o meno 3 metri di altezza. Il monitor superiore trasmette lo stesso spazio, dalla stessa angolazione, ma questa volta dalle immagini emerge una figura umana; quella dello spettatore ripreso di spalle, che diventa sempre più piccolo mentre questo si avvicina ai monitor per accovacciarsi e scoprirne il contenuto. Attivare il circuito alienante di Video Corridor è un’esperienza allucinante: se il monitor inferiore elimina totalmente la figura di chi attraversa lo spazio, l’altro trasmette un punto di vista esterno, estraniante, impossibile. Si diventa nello stesso momento sorvegliati e sorveglianti, il senso dell’orientamento è confuso, la percezione del proprio corpo divisa in due, e la sensazione finale è di pura scissione: è così che avviene un viaggio astrale, quando l’anima si allontana dal corpo per osservarlo dall’esterno per un po’? Oppure l’esperienza di Video Corridor somiglia di più al controllo remoto del proprio avatar in un videogioco in terza persona?
“Dissociazione” è la parola chiave dell’opera di Nauman, ed è il termine che più spesso ritorna nei discorsi di Jane Schoenbrun, regista di We’re All Going to the World’s Fair: presentato un anno fa al Sundance Film Festival e disponibile su HBO Max US da inizio settembre, il film horror è diventato un istantaneo piccolo cult per gli amanti del genere e, nello specifico, per tutti coloro attenti alle evoluzioni in soggettiva di casa Blumhouse, dall’home invasion di Paranormal Activity (2007) alla webcam del desktop movie Unfriended (2014). Ma se Unfriended pescava nell’immaginario del segreto e oscuro Dark Web, il film di Schoenbrun attinge a una fetta di internet ancora più stimolante: quella dei forum dedicati alle Creepy Pasta, ovvero storie ideate, scritte e diffuse con lo scopo di renderle libere, indipendenti, aperte ai più disparati contributi da parte della comunità intera. Quello delle Creepy Pasta è un mondo dove è la capacità nello storytelling a fare la differenza: si comincia spesso da una foto trovata sul web - quasi sempre ritoccata in modo grossolano -, le si allega una storia dell’orrore creata ad hoc, la si rilascia in un forum sperando che possa diffondersi con la stessa velocità di un virus altamente infettivo: è compito degli utenti cooperare affinché il racconto diventi parte della mitologia del web, fino al punto di uscire dai confini digitali e farsi strada nel mondo fisico. Talvolta, come nel celebre caso Slender Man, questa si espande così tanto da diventare un franchising, o addirittura da trovarsi nell’occhio del ciclone di un processo alle cause della violenza giovanile.
La verità è che detenere il controllo su una narrazione, modificandola e arricchendola progressivamente, è nient’altro che un metodo salvifico di manipolare la realtà: quello delle Creepy Pasta è solo uno dei tanti modi di concepire l’idea di una dimensione virtuale dove la finzione astrae dall’ostile mondo circostante, dove la creazione di universi altri è la chiave d’accesso alla più confortante illusione collettiva. È così anche per la protagonista Casey, che per il suo canale YouTube decide di provare una dei giochi di role-playing più diffusi del web, che consiste nel riprendersi mentre si pronuncia per tre volte - e non cinque, come per invocare Candyman - la frase “I’m going to the World’s Fair” per poi documentare i cambiamenti corporei che la formula dovrebbe apportare a chiunque sia così coraggioso da pronunciarla. Casey dà inizio così a una performance perpetua: si riprende continuamente per cercare di rendere i suoi spettatori partecipi della trasformazione che sempre più velocemente sembra star avvenendo al suo corpo. L’adolescente entra in simbiosi con la webcam e con la sua videocamera che la segue durante ogni minuto della giornata, restituendole ogni volta un’immagine di sé stessa effimera, immateriale, pixelata. È qui che la dissociazione ha inizio: “Mi sembra di vedere la mia immagine su una tv in fondo alla stanza” dice Casey in un vlog registrato qualche giorno dopo aver compiuto la sfida. Un virus dal mondo virtuale sembra starsi insinuando nella sua vita reale, una forza che la avvicina di più all’etere cibernetico quanto la distanzia dal suo corpo fisico: un’identità simulata di cui possiede il pieno controllo, una lotta che altro non è che l’espressione della foschia di vivere in un corpo che non si sente essere il proprio.
“Adesso ti dico perché sei qui. Sei qui perché intuisci qualcosa che non riesci a spiegarti. Senti solo che c'è. È tutta la vita che hai la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra, nel mondo. Non sai bene di che si tratta ma l'avverti. È un chiodo fisso nel cervello”: 22 anni dopo il discorso di Morpheus a Neo in Matrix, un’altra giovane regista racconta l’esperienza personale relativa alla disforia di genere mettendo in scena la sensazione di vivere un’identità che va oltre la propria forma corporea, di sentirsi davvero sé stessi solo tra le ragnatele di un mondo che non ha appigli nella realtà sensibile. Come Neo, Casey avverte l’urgenza di liberarsi dallo spazio simulato e di ritrovare un corpo che sia la vera espressione di sé stessa, di estrarre la sua immagine incorporea dallo schermo e proiettarla nel mondo tangibile. Non è chiaramente un caso, dunque, che la stessa Jane Schoenbrun abbia dichiarato di aver trascorso la maggior parte del suo tempo su internet nello stesso periodo in cui gli interrogativi sulla sua identità di genere si facevano strada alla ricerca di una risposta, di una via d’uscita. Allora via al movimento della macchina da presa - la handycam - che restituisce materialità all’immateriale, via alla ballo forsennato che, performato da Casey in una delle scene più ipnotiche del film, - e simile alle più famose performance di Nauman - ha le sembianze di un rituale compiuto per liberarsi da uno spirito che infesta il suo corpo: eppure è proprio l’involucro ad essere più fragile e precario della forza interna, che salda e scalpitante cerca di uscire modificando l’aspetto della ragazza fino a renderla irriconoscibile. “Gloria e vita alla nuova carne”, incitava Max Renn nel finale di Videodrome (1983); viva la carne che si mescola ai codici, alle immagini digitali, allo spazio virtuale, ai sogni nati dall’immenso inconscio collettivo che è internet. Perché in fondo è di sogni che si parla, di illusioni: Casey posa nella locandina del film con l’occhio vitreo del suo peluche preferito di cui era bambina, ormai smembrato in preda ad un attacco schizofrenico dovuto alle conseguenze della sfida online. I nuovi giochi sostituiscono i vecchi, l’escapismo infantile diventa lucido e compiuto attraverso nuovi canali, l’immaginazione cerca altri metodi di sopravvivenza. Questo è We’re All Going to the World’s Fair: un film sui “Nuovi Giochi”, linguistici e relativi al mezzo cinematografico, ma soprattutto meccanismi di difesa, metodi di fuga e auto-determinazione. Perché se internet è espressione massima dell’inconscio, è lì che bisogna guardare per scoprire le illusioni lucidissime delle nuove generazioni, non poi così distanti da quelle delle vecchie. Allora viva le auto-narrazioni, viva la manipolazione del mondo con lo scopo di avvicinare le rappresentazioni all’essenza della propria realtà, viva le forme immateriali che si concretizzano davanti ai nostri occhi.
“Gloria e vita alla nuova carne”, e al nuovo cinema.