The Beach House
Colmo di citazioni che vanno da Cronenberg al filone della zombie invasion, l’esordio di Brown è un eco-horror che sorprende e disorienta, fino a portarci faccia a faccia con l’orrore cosmico.
L’esordio alla regia di Jeffrey A. Brown è un film labirintico: sebbene durante la scena di apertura ci venga mostrato, in quanto spettatori e spettatrici, quello che non è dato sapere ai protagonisti — ovvero che qualcosa si sta muovendo dal fondale oceanico verso la superficie — la pellicola riesce a trascinarci in un dedalo di false piste e vicoli ciechi. La storia infatti assume dapprima i toni di un dramma sentimentale, mettendo in scena una giovane coppia intenzionata, per ritrovare l’intesa, a passare qualche giorno lontana dal mondo, per poi virare allo psico-thriller nel momento in cui i due protagonisti scoprono che il piccolo paradiso che avrebbe dovuto fare da sfondo al loro ritiro romantico è già occupato da un’altra coppia. Bisogna attendere quasi un’ora prima che l’incubo escatologico venga rivelato: un microorganismo parassitario proveniente dalle profondità marine sta contaminando ogni forma di vita, esseri umani inclusi. Quando il velo di Maya viene infine sollevato, il paradiso dalle tonalità pastello cede lo schermo a un paesaggio dalle tinte apocalittiche.
In The Beach House l’orrore cosmico non giunge da angoli remoti dell’universo, né è scatenato dall’hybris umana, ma sorge all’improvviso dagli abissi oceanici senza cause apparenti, e permea l’ambiente diffondendosi per via aerea. Brown si concede tutto il tempo necessario per nutrire l’atmosfera weird, ricorrendo a brevi ma costanti allusioni visive e narrative all’aspetto alieno di alcune forme di vita sottomarine, e a un’insolita colonna sonora elettronica, composta dal musicista britannico Roly Porter. Nelle scene più perturbanti il regista moltiplica le citazioni, omaggiando il body horror di Cronenberg in due sequenze particolarmente suggestive, e ammiccando a titoli quali The Fog e The Mist passando, anche se solo parzialmente, per i cliché della zombie invasion. Le persone contaminate si muovono infatti come morti viventi, e il loro unico scopo sembra essere quello di diffondere ulteriormente il contagio. Non solo questo movente collettivo fa da contrappeso alle microtensioni individuali della prima parte del film, ma addirittura le annichilisce, facendole risultare del tutto insignificanti.
Se da un lato è esplicita l’angoscia di origine ambientale, che ci permette di inserire la pellicola nel prolifico filone eco-horror, Brown decide di adottare un punto di vista originale, mostrandoci l’apocalisse attraverso una lente macro. Veniamo immersi così in un microcosmo fatto di singoli individui e non di masse, privi del flusso di informazioni che pervade il nostro quotidiano. Più la pellicola avanza più ci rendiamo conto di non essere solo osservatori esterni, ma protagonisti nostro malgrado della vicenda: al pari dell’eroina, assistiamo agli avvenimenti mentre accadono, e non sopravvivremo abbastanza a lungo da scoprirne le cause, le conseguenze o la portata. Il risultato è un coinvolgimento totale dello spettatore: quando la protagonista, ormai vittima del contagio, ripete ossessivamente la frase «don’t be scared», “non avere paura”, più volte ripresa nel corso del film, lo fa guardando dritto in camera: il quarto muro viene infranto, e Brown ci rivela così che abbiamo respirato anche noi quell’aria contaminata, e che, anche se ancora non ce ne rendiamo conto, il microorganismo abissale circola già nel nostro corpo. Non dobbiamo avere paura poiché l’unica scelta che ci è data è quella di rassegnarci all’inevitabile.
L’identificazione risulta poi amplificata per ragioni extra-narrative: sebbene non fosse, per ovvie ragioni, nelle intenzioni del regista, nel film è difficile non cogliere traccia degli eventi degli ultimi mesi. In fondo, ci viene raccontato di un organismo microscopico che non solo minaccia la nostra esistenza, ma che, irrompendo in maniera del tutto improvvisa nel quotidiano, modifica la nostra percezione della realtà. Tuttavia, il parallelo non tiene su tutti i fronti, e, sebbene questa coincidenza possa partecipare al successo della pellicola, non è certo lei a renderla valida.
Senza alcuna pretesa di essere rivoluzionario, The Beach House è un film che riesce davvero nel suo intento, ovvero quello di perturbare lo spettatore posizionandolo al centro dell’incubo, e generando un senso di irrequietezza che perdura anche dopo averne terminato la visione. Con la sua prima opera, Brown ci ricorda che l’orrore cosmico può celarsi efficacemente anche nell’infinitamente piccolo, senza per questo risultare meno terrificante, e che, contrariamente a quanto afferma un luogo comune, il mare non è sempre una buona idea.