La cura dal benessere
Abbandonati pirati e cowboy, Verbinski torna alla passione originaria dell'horror con un racconto gotico dalla scrittura incerta ma di grande suggestione visiva.
Hollywood non perdona i passi falsi, soprattutto al botteghino. Basta un film sbagliato e una stroncatura feroce della critica per finire nel dimenticatoio. Ne sa qualcosa Gore Verbinski, ex “Re Mida” dei blockbuster americani passato nel giro di un lustro dagli onori del red carpet (Pirati dei Caraibi, Rango) agli oneri della polvere alzata dal flop colossale del deludente The Lone Ranger, una produzione travagliata (e durata cinque anni) dal budget esorbitante, 215 milioni che a fronte dei 260 hanno decretato la fine del longevo sodalizio dell’autore con la Walt Disney Pictures.
Tuttavia non tutto il male viene per nuocere. Infatti, nei tre anni trascorsi lontano dai riflettori, il regista sembra aver imparato dai propri errori a diffidare dei costosi franchise hollywoodiani, accantonando alcuni rischiosi progetti (il videoludico Bioshock e il cinecomic Gambit) per concentrarsi, anima e corpo, sulla stesura di un’opera personale: La cura dal benessere, inaspettato thriller fanta-sociologico ispirato dalla lettura de La montagna incantata di Thomas Mann.
Scritto da Verbinski insieme al fido sceneggiatore Justin Haythe, il film è un racconto gotico contemporaneo e dall’anima europea – sfarzosa ed elegante – che strizza l’occhio alle recenti suggestioni di Scorsese (Shutter Island) e alle ambientazioni di Sorrentino (Youth) per evocare i “fantasmi” del presente giocando con i cliché e le atmosfere allucinate di alcune “gemme” del cinema di genere nostrano (Gli orrori del castello di Norimberga di Bava, Hanno cambiato faccia di Farina).
La storia è imperniata sul viaggio di Lockhart (Dane De Haan), rampante brooker di Wall Street e novello yuppie, costretto da un’enigmatica missiva a lasciare il suo ufficio di New York per partire alla volta di una remota località situata tra le Alpi Svizzere. La sua missione è quella di recuperare a qualsiasi costo il mittente delle lettera: il sig. Pembroke (Harry Gloomer), l’amministratore delegato da cui dipendono le sorti della società per cui lavora. L’uomo è scomparso durante un soggiorno presso una misteriosa “clinica del benessere”: un vecchio castello convertito in SPA di lusso, dove i facoltosi pazienti cercano rifugio dalle frenetiche esistenze precedenti al ricovero, abbandonandosi alle cure “miracolose” di un bizzarro liquido amniotico brevettato dal luciferino dott. Volmer (Jason Isaacs).
Ogni cosa all’interno della clinica è attorniata dall’acqua che riflette, amplifica, dilata le sensazioni, creando un clima surreale – quasi onirico – tanto da far dubitare lo stesso protagonista della sua presunta sanità mentale. Soltanto da ricoverato, in seguito ad un sinistro incidente, scoprirà di essere prigioniero di un incubo dal quale fatica a risvegliarsi; come tutti gli altri pazienti, isolati dentro delle vasche di deprivazione sensoriale che ricordano da vicino quelle immortalate da Stati di allucinazione di Ken Russel. L’unica eccezione è la giovane “pupilla” del dottore: la candida Hannah (Mia Goth), una presenza eterea che si aggira indisturbata tra le mura familiari del sanatorio, come un’inconsapevole vestale, condannata dal destino al ruolo di vittima sacrificale del suo sordido aguzzino. Sarà proprio il pericolo che incombe sulla ragazza a dare a Lockhart la forza di reagire, raccogliendo gli indizi necessari che lo spingeranno ad addentrarsi nelle viscere labirintiche del castello. Qui scoprirà l’origine del male antico che serpeggia tra le spire delle anguille totemiche che custodiscono da secoli gli inconfessabili segreti del dott. Volmer e dei suoi adepti.
Gore Verbinksi è tornato sulla piazza e si vede. Libero dagli obblighi contrattuali che lo legavano al cinema d’intrattenimento per famiglie – come ogni scapolo che si rispetti – ne ha approfittato per tornare alla sua passione originaria: il cinema thriller-horror. Infatti, sebbene Verbinki debba la sua fama alla capacità di aver trasformato in oro un’attrazione turistica di Disneyland, riportando in auge i film sui pirati dopo cinquant’anni di pallidi tentativi (Corsari di Herlin), il regista era già balzato agli onori della cronaca per aver inaugurato il prolifico filone dei remake americani basati sugli horror nipponici, con la sua riuscita versione di The Ring. Un film che al suo debutto aveva incollato davanti agli schermi di tutto il mondo una nuova generazione di spettatori in cerca di brividi; gli stessi brividi che gli estimatori possono ritrovare qui, grazie a quello spiccato gusto per il macabro e a quel fascino morboso per l’acqua che caratterizzano anche questo nuovo lavoro.
Dopo aver esplorato un passato mitico – frequentato da filibustieri e cowboy – Verbinski torna a focalizzarsi sul presente proponendoci la sua “cura” contro i turbamenti, le ipocondrie e gli inganni del nostro tempo, e lo fa omaggiando esplicitamente tutti i suoi illustri predecessori: da Kubrick a Polanski passando per Argento. A partire dalla colonna sonora – una spettrale litania infantile di morriconiana memoria – il regista palesa tutto il suo amore per il cinema gotico neoclassico, per i suoi stilemi ma soprattutto per i suoi ritmi lenti e cadenzati nel processare l’orrore. Gli stessi protagonisti rispecchiano tutti i canoni del genere: Lockhart è un “vampiro” dell’alta finanza in cerca di redenzione mentre Volmer rappresenta lo “scienziato pazzo” affetto dai deliri di onnipotenza. Entrambi i personaggi sono coinvolti nell’eterno scontro tra bene e male per amore di una vergine.
La cura dal benessere è un film tecnicamente ineccepibile che riscatta il talento visivo di Verbinski, forte di un fotografia straordinaria curata da Bojan Bazelli (Pumpkinhead, Kalifornia, Rock of Ages), capace di esaltare al meglio le potenzialità delle suggestive location scelte per le riprese: il castello di Hohenzollern e l’ex-ospedale militare abbandonato di Beelitz-Heilstätten in Germania. Un’ambientazione ideale per una storia dagli umori malinconici ed autunnali – simili a quella già percepiti in The Weather Man – che fa da sfondo ad un’esuberanza stilistica fuori dal comune e dal taglio registico nettamente autoriale, evidenza dovuta alla necessità di scrollarsi via di dosso l’etichetta di mestierante senza arte né parte. Una critica a cui Verbinski risponde con un uso audace della macchina da presa e una cura maniacale per i dettagli – a tratti ridondante – che lusinga l’occhio dello spettatore ad ogni inquadratura, a prescindere dalla narrazione. Purtroppo le perplessità maggiori si evidenziano proprio in fase di scrittura, a causa di una sceneggiatura che vacilla nello svolgimento a discapito delle solide premesse iniziali, complice una durate eccessiva che rende ostico arrivare al finale, e una parte centrale che risente di scelte narrative ingenue e pretestuose che ritardano i meccanismi della tensione e sviano l’interesse del pubblico al punto da suscitare – involontariamente – lo stesso senso di spaesamento provato dal protagonista durante la visione.
Nonostante questi problemi di scrittura, La cura dal benessere è un gradito ritorno, un film pittoresco, spiazzante per creatività e schizofrenia. Una visione obbligata per tutti i detrattori di Verbinski, che testimonia l’inalterato talento istrionico di un regista “allo stato liquido”, ancora in grado di insinuarsi tra le fessure del cinema mainstream, assumendo nuove forme, descrivendo nuovi percorsi senza perdere l’entusiasmo contagioso degli esordi.