La morte corre sul fiume
Un’opera classica nella cornice ma moderna nella sostanza; o forse, più semplicemente, un film al di là di qualsiasi demarcazione teorica, come ogni capolavoro.
La morte corre sul fiume, prima e ultima regia di quell’animale da palcoscenico e da set che fu Charles Laughton, è un lavoro filmico che sfugge all’urgenza normalizzatrice della classificazione, della codificazione propria dei generi e delle loro comode etichette, situandosi in quel limbo cinematografico, straordinario e scarsamente popolato, delle opere uniche, asimmetriche, rivoluzionarie, collocate al di là di qualsiasi tentativo di storicizzazione.
Laughton costruisce a prima vista un racconto che affonda nei classici topoi della fiaba: un tesoro nascosto; un padre e una madre vittime del Fato ineluttabile; due bambini orfani in balia di un essere dall’animo mostruoso, che rimanda all’ovvia figura dell’orco; una fuga; una buona donna che funge da fata, da figura provvidenziale.
Al di sotto di questo primo e più evidente strato della narrazione, se ne collocano però innumerevoli altri, a livello tematico, stilistico, narrativo. Un film “polifonico” – come ebbe a scrivere Bruno Fornara – che, forse, proprio per questa sua natura incontrò l’insuccesso al botteghino, impedendo a Laughton di cimentarsi nuovamente con la regia.
Fin dall’incipit cantato (in cui un coro di voci bianche fuori campo intona una ninna-nanna: “Dream, little one, dream / Dream, my little one, dream / Though the hunter in the night / fills your childish heart with fright / Fear is only a dream / So dream, little one, dream”) e accompagnato dalle immagini di una volta stellata su cui scorrono i titoli di testa, si fanno strada la sfumatura fiabesca e quella onirica, che costituiranno la dimensione emersa e più facilmente riconoscibile del prosieguo dell’opera. L’incipit prepara l’epifania sullo schermo del volto bonario dell’anziana Rachel Cooper (Lillian Gish), tramite un semplice effetto ottico di sovrimpressione. Le parole con cui Rachel si presenta allo spettatore (anche se nella finzione filmica i suoi interlocutori sono dei “little ones”, volti di fanciulli, anch’essi sovrimpressi alla volta stellata, che fungono da incuriosito uditorio della donna) costituiscono però, già da subito, uno slittamento tonale che conduce il fiabesco tout court nei territori più complessi della fabula, quindi non solo verso un racconto mitico/leggendario, ma anche in direzione di un apologo con marcata connotazione morale. Rachel mette in guardia l’uditorio nei confronti dei “falsi profeti”.
Questa brevissima e singolare ouverture pre-diegetica, oltre a presentare colei che sarà la protagonista della seconda parte del film assieme alla sua variegata famiglia di orfani, chiarisce fin da subito il ruolo centrale che la parola – in guisa di canto e discorso, innanzitutto, per poi assumere successivamente anche le sembianze di minaccia, giuramento, sentenza, o di tenero rimprovero e ammonimento – avrà nello sviluppo del film. L’inquadratura cambia e diviene un campo lunghissimo, che introduce l’orizzonte diegetico vero e proprio, mostrando un fiume e una riva, sulla quale dei bimbi giocano a rimpiattino. Lo stacco, con una successiva inquadratura in campo ravvicinato, conduce i ragazzini intenti nel loro gioco (ancora dei “little ones”) – e con loro lo spettatore – a scoprire, all’interno di un magazzino, il cadavere di una donna. In due minuti e mezzo esatti, la cornice fantastica si è trasformata in fabula per poi entrare nei territori oscuri del thriller, un racconto nero che toccherà gradazioni sempre più inquietanti nella sua folgorante progressione. Naturalmente, come ogni novella dark che si rispetti, anche The Night of the Hunter [1] avrà un villain di spessore, il memorabile orco-pred(ic)atore Harry Powell (interpretato irresistibilmente da Robert Mitchum), cacciatore di vedove danarose e sognatrici.
Se la parola, come si diceva poc’anzi, riveste un ruolo centrale nello sviluppo drammaturgico, tematico e tonale del film, certamente Powell ne incarna del tutto le innumerevoli possibilità affabulatorie.
Egli, appunto, è un grifter, un con(fidence) man, cioè un artista della retorica, un illusionista del ragionamento, più che un generico ciarlatano imbroglione; il predicatore-killer infatti utilizza la sibillina ambiguità, allusiva ed ellittica, degli insegnamenti evangelici o dei precetti vetero-testamentari, per affascinare l’uditorio che di volta in volta si troverà ad affrontare, e per carpirne la fiducia (la “confidence”, appunto), sia esso costituito da una collettività piuttosto che da una singola malcapitata, come nel caso di Willa Harper (Shelley Winters), fresca vedova del marito Ben (Peter Graves), giustiziato per rapina e omicidio. Powell, peraltro, in funzione dei suoi scopi, fa uso del sermone ma anche del canto, quindi di entrambe le possibilità espressive concesse alla voce umana: valga come esempio il modo beffardo con cui la regia di Laughton cambia di segno e di senso l’inno tradizionale religioso Leaning on the Everlasting Arms – continuamente riproposto da Powell fino a costituire uno dei suoi tratti sonori distintivi – per trasformarlo nel tema musicale del villain, intaccandone alla radice lo statuto semantico e valoriale originario.
È d’altra parte necessario che, al fine di concretizzare i propri morbosi disegni, Powell abbia un uditorio sensibile a ciò che egli esprime, ecco perché le sue ribalderie si rivolgono ai campagnoli creduloni e bigotti della provincia. In questo caso, l’apologo morale di Laughton si trasforma ulteriormente in un’allegoria con venature satiriche, e perciò politiche, nel senso pieno e profondo del termine. Inoltre, è probabilmente inevitabile che un ceffo affascinante e ambiguo come Powell sia in grado di toccare le corde appropriate di un pubblico dalla scarsa apertura mentale, retrogrado e in una condizione di più o meno recondita repressione sessuale [2], giacché Powell stesso in primis presenta segni di fobia nei confronti della femminilità, che alludono a una latente mancanza di virilità e indicano una scoperta misoginia [3]. Se il sesso è il punto debole di Powell, egli presenta però altre risorse, sia dialettiche, come si è accennato, sia concretamente pratiche.
Due di queste risorse sono ormai entrate nel cuore dell’immaginario cinematografico, trasformandosi icasticamente in simboli sia del personaggio che del film. Si tratta del coltello che il (ben poco) reverendo Powell ha in tasca, chiara allusione fallica nonché strumento-feticcio di morte, e dei due tatuaggi “LOVE” e “HATE”, che egli sfoggia rispettivamente sulla prima falange della mano destra (la mano di Dio) e di quella sinistra (la mano del Diavolo). Le due parole tatuate, oltre ad attirare l’attenzione degli interlocutori e ad acuire il fascino del con man, costituiscono la sintesi perfettamente stilizzata dell’universalità dell’opera: Amore e Odio, Bene e Male sono gli opposti che muovono la realtà e con essa le storie che la raccontano, tutte le storie, filmiche e non.
Se Powell è il prestigiatore della parola in funzione della falsificazione della realtà, Rachel Cooper, all’opposto, ne è la custode con funzione veritativa. Di Rachel, e soltanto sua, è la capacità di comprendere il valore mitopoietico delle Sacre Scritture, che non hanno lo scopo di essere, in modo astratto e dogmatico, verità rivelata, ma che divengono invece verità incarnata solo se inserite in un mythos, in un racconto capace di comprendere il mondo.
Quando Pearl (Sally Jane Bruce) e John (Billy Chapin), i due orfani in fuga, raggiungono l’accogliente dimora di Rachel e dei suoi ragazzi, accade un miracolo che possiede certamente i caratteri della Provvidenza in atto, cioè una salvezza insperata e improvvisamente manifesta; il miracolo però è anche di altro tipo, dato che va ad intaccare la lettera delle Sacre Scritture, pur se teneramente e senza l’ombra di blasfemia: Rachel racconta ai ragazzi la storia di Mosè e del suo ritrovamento, da neonato, in una cesta sulle rive del Nilo. La vicenda di Mosè però non convince appieno John, strappato al pericolo in circostanze analoghe assieme all’amata sorella, e quindi necessita di un ritocco per diventare una storia buona e perciò vera: il mito biblico sarà rivisto in modo tale che Mosè diventi, semplicemente, due bambini, come converrà di buon grado anche Rachel. Inoltre, Rachel è sacerdotessa della saggezza senza tempo di un umanesimo imbevuto di genuina spiritualità, più che di generica e superficiale religiosità, un umanesimo che pone al proprio centro i cuccioli d’uomo, gli innocenti che più di chiunque altro “sopportano e resistono”. In un ambiente in cui gli adulti sono pressoché tutti stolti, ipocriti o malvagi, Rachel ha il merito di concentrare la propria attenzione e la propria umanissima “magia” sui giovani e i giovanissimi, quindi su coloro che possiedono ancora il dono della possibilità di cambiare il mondo, magari solo sognando, oppure ascoltando e raccontando delle storie. Da ultimo, ma non meno importante in questo contesto, va segnalato come Rachel sia anche l’unica in grado di sostenere gli assoli vocali di Powell: quando l’omicida arriva nottetempo, da vero “hunter in the night”, nei pressi dell’abitazione della donna, alla ricerca di John e Pearl, egli intona ancora una volta Leaning on the Everlasting Arms, l’inno che ne segnala la mortale presenza, e Rachel duetta con lui, sovrapponendo la propria voce argentina a quella baritonale dell’uomo e facendo sì che il canto si riappropri del significato autentico delle proprie parole.
L’importanza della parola, però, non tocca solo i due personaggi adulti principali, bensì, come accennato, arriva a costituire uno dei propulsori decisivi della narrazione in generale, nonché della corrispondente costruzione di senso dell’opera.
Tre contesti verbali performativi [4] scandiscono altrettanti momenti cruciali della prima parte del film: la lettura della condanna a trenta giorni di carcere comminata ad Harry Powell per furto d’auto; il giuramento che Ben Harper fa pronunciare ai figli, dopo aver consegnato loro il denaro da lui rapinato per necessità; la lettura della sentenza di morte nei confronti di Ben Harper stesso. Nel primo caso, la mite condanna ricevuta conduce Powell a incontrare Ben in carcere e a carpirgli l’informazione sulla presenza del denaro presso l’abitazione di quest’ultimo; nel secondo, dall’impegno del giuramento (e dalla presenza del denaro) scaturisce una serie di conseguenze imprevedibili e fatali: Powell si mette sulle tracce della vedova di Ben, Willa, che egli circuisce, sposa e uccide, per poi rimanere solo coi due bambini custodi del segreto e quindi costretti alla fuga; nel terzo caso, la condanna a morte di Ben costituisce in sostanza anche una condanna a morte indiretta per Willa e un pericolo diretto per John e Pearl, rimasti senza la protezione del padre alla mercé del predicatore folle e col gravoso fardello del bottino della rapina.
Nella parte centrale, altri due personaggi di contorno, Icey Spoon (Evelyn Varden) e “Uncle Birdie" Steptoe (James Gleason), ricevono da Laughton, per un tratto del film, il “dono” della parola, ma facendone un pessimo uso: Icey è colei che convince Willa a farsi corteggiare da Powell, mentre Uncle Birdie è colui che promette ai due ragazzi di aiutarli in caso di bisogno dopo l’esecuzione di Ben, ma quando i ragazzi avranno bisogno di lui, egli giacerà nella sua baracca vicina al fiume, in preda ai fumi dell’alcol. In breve, se la Parola di Dio può venir facilmente fraintesa o riadattata a piacimento da chi ne ha l’abilità, mostrandosi perciò tutt’altro che affidabile, almeno per chi non la ascolta autenticamente, quella dell’uomo sovente non è che misero flatus vocis, emissione di suono incoerente, con la pretesa irresponsabile di decifrare, modificare, controllare e giudicare il mondo e gli altri uomini, senza che ve ne siano le condizioni. Va notato anche come, differentemente dal mondo degli adulti, marcato dall’atto di parola, quello infantile risulti perlopiù contrassegnato dall’ascolto e dal silenzio, e non solo per quanto riguarda il giuramento che John e Pearl rispettano strenuamente, ma anche in generale per ciò che attiene al rapporto fra giovani e anziani, con questi ultimi troppo ciarlieri e pieni di sé per essere anche in grado di intendere ciò che i vari interlocutori stanno effettivamente dicendo. Quindi, La morte corre sul fiume è un’opera (anche) di parola, e capace di esprimere splendidamente, proprio tramite l’uso adulterato che se ne fa, la sostanziale incomunicabilità fra esseri umani.
Se la verbalità in tutte le sue sfaccettature è uno degli elementi portanti, nonché uno dei motori principali del procedere dell’azione, è anche vero che svariati sono gli aspetti tecnici, stilistici, espressivi, narratologici da prendere in esame per comprendere la ricchezza del film. A una narrazione sostanzialmente semplice, tecnicamente caratterizzata da focalizzazione zero e onniscienza del narratore esterno [5] – come accade nel racconto classico – e strutturata secondo il semplice schema SAS, cioè situazione/azione/nuova situazione [6], fa da contraltare una serie di marche espressive, stilistiche e linguistiche, di cui si cercherà ora di dare un breve resoconto.
Mentre la scala dei piani viene utilizzata in modo sostanzialmente tradizionale, anche se assai dinamico, è il lavoro sugli aspetti luministici della messa in scena a costituire una rilevante e continua variazione tonale: in quest’ultimo caso i meriti vanno anche ascritti al grande direttore della fotografia Stanley Cortez, al lavoro sui set de L’orgoglio degli Amberson, Dietro la porta chiusa, Il corridoio della paura, solo per citare i più rilevanti.
La prima parte del film, almeno fino alla celebre comparsa della sagoma di Powell dietro la tenda della finestra che funge da “occhio” della camera da letto di John e Pearl, è fondamentalmente luminosa e diurna, anche se fanno macchia le sequenze nella prigione in cui langue Ben Harper nella stessa cella di Powell, ricche di zone d’ombra specie agli angoli dell’immagine. Dall’entrata di Powell nella vita di quel che resta degli Harper, vi è un continuo alternarsi di scenari limpidi e momenti foschi, con l’apice di questi ultimi nella lunga sequenza che prelude all’omicidio di Willa e in quella che si conclude con esso [7]. Nel primo di tali segmenti narrativi, fa la sua comparsa la nebbia – una nebbia da set, magnificamente artificiale – e le ombre si allungano. Mentre il colloquio tumultuoso fra Powell e i due ragazzi, circa l’ubicazione del denaro e prima che Willa torni dal lavoro, risulta fondamentalmente classico nel linguaggio, il rientro a casa della donna e poi la grandiosa sequenza del suo omicidio da parte di Powell risaltano per la forza espressiva e per il prezioso lavoro sugli elementi chiaroscurali. Nel momento in cui la donna sta per mettere piede a casa, è avvolta dalla nebbia e ripresa in campo lungo, un’ombra ormai dispersa all’interno di un ambiente fantasmatico e irreale, dai contorni marcatamente gotici. A predominare, nella sequenza dell’omicidio, sono invece le geometrie di taglio espressionista, coadiuvate dalla scenografia verticale e claustrofobica della camera da letto in cui si svolge il fatto, con effetti di luce che rendono luminoso il centro dell’immagine e totalmente oscuri i margini; risalta la silhouette scura e in piedi di Powell contrapposta alla figura sdraiata e cerea di Willa. Il montaggio e le inquadrature costruiscono l’evento in modo intenso e fondamentalmente “anti-classico”, giacché sono pressoché assenti i primi piani (salvo quello del volto di Powell, quasi completamente in ombra e rivolto verso l’alto, alla ricerca di trascendente ispirazione, o il piano americano di Willa distesa sul talamo mentre parla fra sé e sé), e i momenti salienti dell’azione – ieratica e solenne come una cerimonia religiosa – sono ripresi in campo medio/lungo, a distanza.
Subito dopo, è situata l’altrettanto celebre sequenza subacquea del ritrovamento del cadavere di Willa nel fiume da parte di Uncle Birdie: dapprima un’oggettiva del corpo della donna fra le alghe, poi la soggettiva del vecchio dalla barca, che si trasforma, con un leggero slittamento del punto di osservazione, in una falsa soggettiva, in un’atmosfera complessiva che richiama alla mente L’Atalante di Vigo. Dall’accento gotico-espressionista della sequenza dell’omicidio di Willa, si passa, senza soluzione di continuità, allo spirito surrealista di quella subacquea, uno spirito che si accentuerà vieppiù durante la fuga in barca dei due ragazzi, scandita dalla penombra e dal ritorno alla dimensione fiabesca dell’incipit.
Analoghe considerazioni possono essere fatte riguardo alla seconda parte della pellicola, nella quale si alternano il giorno e la notte, senza che però quest’ultima risulti minacciosa come nella prima parte, salvo nella sequenza del confronto diretto fra Powell e Rachel. Powell, dopo aver fatto visita alla donna in pieno sole ed essere stato respinto da questa nonostante i suoi modi al solito suadenti, torna di notte, una notte in cui le ombre sembrano incombere nuovamente e in cui persino la luce ha risvolti inquietanti. Un campo lungo lo mostra di spalle, mentre intona per l’ultima volta il suo inno di battaglia, che, come già accennato, verrà poco dopo ripreso e “ri-semantizzato” dalla voce di Rachel. Prima che il duello musicale fra i due inizi, c’è il tempo per due veloci inquadrature della stanza in cui dormono i ragazzini di Rachel: un triangolo di luce sinistra e accesa ne domina, al centro dell’immagine, le figure addormentate, mentre i lati sono totalmente immersi nella tenebra. Sta per cominciare l’ultimo duello fra Luce e Buio, fra Bene e Male, ed entrambi hanno le tonalità del conflitto più estremo. Solo dopo che Powell sarà assicurato alla giustizia degli uomini – altrove così fallace e fuori asse – finalmente la lotta Luce/Buio si placherà definitivamente.
Un ultimo aspetto da prendere in considerazione riguarda lo statuto dello sguardo nel suo rapporto con azioni e reazioni, che marca ancora una volta le distanze fra adulti e bambini.
Lo sguardo dei primi è spesso ottuso e incapace di leggere la realtà, così come lo sono i loro discorsi. Essi sono quindi caratterizzati, perlopiù, da azioni vuote e decisioni irresponsabili, che finiscono per gravare non di rado sulle spalle dei secondi. Fa macchia, naturalmente, Powell, i cui occhi rapaci e sornioni sanno sempre come esaminare gli interlocutori. Va sottolineato, comunque, come egli non sia in grado di afferrare il segreto che più gli sta a cuore, cioè la collocazione del denaro (quest’ultimo, nell’attrazione che esercita sul villain e nella sua inafferrabilità, si configura come elemento che va ben al di là della mera funzione di MacGuffin, divenendo chiara metafora della vanità e della cupidigia umane, vero e proprio “sterco del demonio”), che per quasi tutto il tempo è sotto i suoi occhi, ma che egli non è in grado di vedere.
Diverso e più complesso risulta invece l’esame di ciò che attiene alla dimensione infantile. L’egemonia delle persone mature nell’età – senza peraltro il vantaggio di una corrispondente maturazione a livello cognitivo – comporta per i più giovani una decisiva impossibilità di interazione proficua con l’ambiente, unita a una sostanziale impotenza motoria e soprattutto decisionale. Lo sguardo dei bambini è spesso specchio di tale impotenza, configurandosi come pura percezione o emozione, senza la possibilità che tali stati si traducano in atti effettivi. Come altro collocare le occhiate ferme ma innocue che John rivolge a Powell, quando questi lo interroga caparbiamente, o quelle spaurite della piccola Pearl, quando viene a sua volta chiamata in causa senza avere l’adeguata esperienza per destreggiarsi con una decisione? È anche vero, però, che l’occhio dei piccoli sovente vede lungo e intuisce i pericoli prima che se ne accorgano gli altri: sono dei bambini a trovare il corpo della donna assassinata all’inizio; è John l’unico a cogliere pienamente la natura sinistra di Powell fin dal principio ed è sempre lui a costruire le premesse per la rocambolesca fuga con la sorella, passando finalmente all’azione. John, malgrado la propria veloce maturazione, che lo conduce a una salvifica precocità, nella sequenza del processo decisivo a Powell, una volta interpellato dai magistrati, non riuscirà però, nonostante tutto, a guardare l’assassino e ad accusarlo: ennesima dimostrazione di incomunicabilità fra l’austero e intimidatorio mondo dei grandi – siano giudici o imputati – e quello immaginoso ma travagliato dei piccoli. L’unico adulto in grado di reggere la presenza di Powell, senza restarne sedotto o intimidito e reagendo definitivamente alla sua minaccia, è Rachel, il solo personaggio capace di porsi ad altezza di bambino e forse, proprio per questo, libero da ottuse sovrastrutture che ne vincolino la capacità di discernimento.
Lo sguardo ad altezza di bambino, peraltro, è il vero marchio di una pellicola d’esordio che scruta il mondo come se fosse la prima volta, innescando ricorrenti cortocircuiti nella messa in scena e nell’avanzare della narrazione, che si giovano quindi di continui e splendidamente straniti cambi di registro, in grado di innervare l’opera di vitalità e geniale complessità.
La morte corre sul fiume si configura, in sintesi, come un vero e proprio crogiolo di codici linguistici ed espressivi, efficaci nell’armonizzarsi in un racconto di cristallina linearità e immediatezza, originando il gustoso paradosso di un’opera compatta e immediata nella sua potenza significante, eppure allo stesso tempo sfuggente, smarcata da ogni stereotipo, allucinata, sognante, letteralmente extra-ordinaria. Un’opera che si insinua al di sotto della soglia della coscienza, per andare a dimorare negli strati più profondi dell’immaginario dello spettatore, senza lasciarlo più.
[1] Il titolo originale del film corrisponde a quello dell’opera letteraria di Davis Grubb, da cui è tratto il soggetto.
[2] Si confronti, a tal proposito, il monologo del personaggio di Icey Spoon – ottima amica e pessima consigliera di Willa – sul sesso matrimoniale, nella sequenza del ritrovo della piccola comunità cittadina di Cresap’s Landing (la località dove si svolge la prima parte del racconto) per il picnic in onore di Harry Powell.
[3] Sequenza indicativa è quella in cui Powell assiste a uno striptease, inanella una serie di smorfie di disgusto, mette mano al coltello che ha in tasca e quindi ne fa scattare la lama, lacerandosi la fodera dell’abito.
[4] Il termine va ricondotto all’accezione attribuitagli dal filosofo del linguaggio John L. Austin, secondo la quale, in specifici contesti, specie se giuridicamente regolati, il soggetto di determinate asserzioni, quali promesse, sentenze, ingiunzioni, ordini, non sta semplicemente parlando ma sta agendo, sta compiendo appunto un atto linguistico, il quale muta l’assetto del reale nel momento stesso del suo accadere.
[5] L’espressione “focalizzazione zero”, coniata dal linguista e filosofo Gerard Genette, indica appunto un grado azzerato del racconto, in cui il sapere del narratore (esterno o extra-diegetico) è totale e al di sopra di quello dei singoli personaggi: ne deriva una corrispondente onniscienza anche del lettore (o dello spettatore, nel contesto cinematografico), una onniscienza certamente ubiqua e panoramica, ma anche e inevitabilmente progressiva, dato che senza progressione non vi sarebbe racconto.
[6] Vale a dire: situazione di partenza; azioni che ne rompono l’equilibrio; contro-azioni atte a ristabilire l’armonia compromessa; ripristino dell’ordine iniziale o nascita di un nuovo ordine.
[7] Laughton, comunque, conclude la scena un attimo prima che il coltello di Powell cali su Willa.