La notte dei morti viventi
Nell'anno della contestazione, l'esordio di un maestro che generò una rivoluzione cinematografica.
1968. Siamo alla vigilia di un grande movimento che scuoterà l’ordine sociale. La necessità di rompere col passato è impellente; le nuove generazioni non si rispecchiano più con i miti dei padri, né tantomeno con le loro paure. Il conte Dracula o la creatura di Frankenstein non sono ormai in grado di turbare nessuno, come ha sottolineato Peter Bogdanovich in Bersagli, dove un anziano attore di film dell’orrore, non a caso interpretato da Boris Karloff, deve cedere il posto alla realtà di un cecchino. Se Targets è una pellicola del ’68, La notte dei morti viventi è il Sessantotto. Per la sua capacità di tracciare una linea di demarcazione netta tra l’horror prima e dopo, il lungometraggio d’esordio di George Andrew Romero diventa un atto rivoluzionario. Il regista di Pittsburgh mette in scena una storia di mostri minacciosi e umani in pericolo, al pari della maggior parte dei titoli appartenenti al genere, ma con alla base una domanda differente: siamo certi che ciò che dovremmo temere siano gli altri?
Innanzitutto l’autore evita di dare qualsiasi spiegazione e dunque giustificazione all’orrore. Chi siano e da dove vengano i non-morti, come sia possibile tornare in vita, non è dato saperlo. Un telegiornale ipotizza che sia colpa delle radiazioni portate sul nostro pianeta da un satellite NASA di ritorno da Venere. Rimane un’ipotesi, niente più. E anche se fosse corretta non avrebbe in realtà alcuna importanza. In questo La notte dei morti viventi è molto vicina a Gli uccelli di Hitchcock: il male piovuto addosso ai protagonisti è improvviso e imprevedibile. Razionalmente non avrebbe motivo d’esistere. Il principio causa-effetto viene a mancare o si rende impercettibile. Provare a dare una spiegazione scientifica ai morti viventi diventa quasi irrazionale ed è questa assenza di una genesi dichiarata il primo punto di rottura con la precedente tradizione dell’orrore.
I morti viventi sono introdotti al pari di una nuova specie, molto simile alla nostra, se si eccettua quel piccolo particolare di essere defunti. La loro funzione sociale e biologica è di fagocitare i vivi e allo stesso tempo omologarli ai morti. Per i sopravvissuti rifugiarsi in casa, in un supermarket o in un bunker non serve a molto. L’evoluzione della specie e la sua capacità di imporsi fino dominare il mondo sono temi che verranno sviluppati maggiormente nei capitoli successivi della saga romeriana. Fermo restando che tutte le guerre sono tra simili, è lo stesso regista a parlare di un’allegoria che vuole tracciare un parallelo tra quello che le persone stanno diventando e l’idea che esse si muovano su diversi livelli di follia, chiari solo a loro stesse. Lo dice chiaramente Gwen in Zombie, «Stiamo perdendo contro noi stessi», e lo ribadisce Pat nel remake di La notte dei morti viventi diretto da Tom Savini e sceneggiato dallo stesso Romero, «Noi siamo loro e loro sono noi».
Appurato ciò, è plausibile l’idea di chi ha visto nei morti viventi de La notte una rappresentazione delle nuove generazioni e dunque un presagio di quella che sarà la contestazione studentesca sessantottina (il film venne girato in alcuni fine settimana tra il giugno e il dicembre del 1967). Romero fu in grado di precedere i tempi, esattamente come il Godard di La cinese in anticipo di un anno sul Maggio francese.
La labile linea di demarcazione tra i due schieramenti, buoni e cattivi, vivi e morti, è resa ancora più fragile dal make-up, spesso ridotto al minimo o completamente assente, dei “mangiatori di carne” (così chiamati nel titolo di lavorazione, Night of the flesh eaters; ma prima ancora si era pensato a Monster Flick e Night of Anubis, ovvero il dio egizio posto a guardia del regno dei morti), che non permette di stabilire con esattezza a quale schieramento appartengano le pedine messe in gioco. Si pensi al primo morto nel cimitero scambiato per un vivo o, al contrario, all’entrata in scena di Harry Cooper e Tom e alla fine di Ben, tutti e tre confusi per non-morti, i primi due da Barbara e l’ultimo da un cecchino. La riflessione si fa più emblematica se si nota che su sei rifugiati in casa (escludendo dall’insieme la bambina perché già in fase di metamorfosi una volta giunta in cantina) solo due muoiono per aggressione da parte di un non-morto, la signora Cooper vittima della figlia e Barbara del fratello (sembra dunque che i problemi si risolvano in famiglia). Gli altri quattro personaggi periscono o per via dei soprusi di qualcuno, Harry e Ben, o per la loro incoscienza, Tom e Judy. Di conseguenza gli assassini hanno sempre un nome e un volto. Le vittime conoscono i propri carnefici, fatta eccezione per il primo omicidio nel cimitero e per l’assassinio di Ben, ma a quest’ultimo sarebbe bastato vedere un telegiornale per scoprire chi era in procinto di sparargli.
Bisogna ricordare che la prima fonte d’ispirazione del classico di Romero fu I vampiri di Richard Matheson, oggi noto ai più col titolo originale I am legend. Il romanzo alla base di 1975: occhi bianchi sul pianeta Terra e Io sono leggenda aveva avuto un primo adattamento cinematografico già nel 1964, L’ultimo uomo della terra con Vincent Price. La similitudine maggiore tra la trasposizione ufficiale di Matheson e La notte si trova nell’assedio delle rispettive case che a tratti, specie nel film di Romero, sembra rimandare al celebre finale di Nascita di una nazione di Griffith.
Ne L’ultimo uomo della terra un gruppo di contaminati-vampiri circonda ogni notte l’abitazione del protagonista. Sono esseri insofferenti, stretti parenti dei morti viventi romeriani. Si muovono allo stesso modo, lento e impacciato, hanno un solo passatempo, provare in tutti i modi ad entrare dentro l’immobile o, in alternativa, sfasciare la macchina del proprietario di casa. Constatata l’effettiva similitudine tra le creature, può risultare utile alla comprensione del secondo film rammentare il finale del primo: una donna accarezza un bambino in lacrime e gli sussurra «No, non piangere, non c’è nulla da piangere, siamo tutti salvi ora!», Vincent Price è morto. In altri termini, si sono capovolti i ruoli. Non è Price, l’ultimo uomo integro, ad aver paura dei contaminati, ma sono questi ultimi a temere lui. Il vero pericolo non è mai stato rappresentato dai diversi, ma dall’unico individuo a non esser cambiato, a non aver accettato il mutamento sociale. E morendo, in un attimo di lucidità, la verità sembra folgorarlo: «Avevano paura di me». La morale della storia è facilmente traslabile al successivo La notte dei morti viventi dove, come sottolineato, la sottile linea rossa che funge da confine tra le due fazioni è più volte valicata da entrambe le parti.
Nel primo film di Romero non viene mai usato il lemma zombi, probabilmente per rafforzare il totale distacco dalle pratiche voodoo haitiane da cui la parola prende origine. Avulso dalla precedente tradizione, La notte dei morti viventi si inserisce in un periodo di rimodernamento del cinema americano, dove l’eroe viene meno. La minaccia sociale funge da catalizzatore e alibi per l’esplosione di frustrazioni individuali. Il personaggio che potrebbe rivestire il ruolo di leader e quindi permettere al gruppo di sopravvivere viene osteggiato in quanto afroamericano. Al contrario, l’esercito dei non-morti risulta essere molto compatto. Ora che non è più schiavo di un sacerdote, lo zombi conquista un proprio stato sociale e diventa in poco tempo la maggioranza, lasciando ai vivi morenti la scelta tra adattarsi e scomparire. Il proliferare di emuli negli anni a venire comprova la forza rivoluzionaria delle creature di George A. Romero e di conseguenza l’impossibilità di morire del proprio autore.