Legion - Seconda stagione
Sempre più radicale e immaginifica, la serie FX firmata da Noah Hawley continua ad affascinare.
La seconda stagione di Legion, uno dei prodotti di punta della rete americana FX, è un incubo febbrile fatto di narratori inaffidabili, ribaltamenti di prospettive e di geometrie, mondi paralleli, dance-off, collassi temporali. Come e più che nella prima stagione, la serie firmata da Noah Hawley dissolve qualsiasi aspettativa dello spettatore e lo getta in un mondo strano e affascinante, occupato da un immaginario incontenibile e una continua voglia di sperimentare e stupire. Insieme ad Atlanta (non a caso un’altra serie targata FX), Legion ridefinisce i confini della televisione contemporanea e traccia percorsi nuovi della visione e del racconto seriali.
La scommessa più ardita di Legion è la scelta di rappresentare un mondo frantumato e incoerente come la mente di David (Dan Stevens) e molti altri personaggi. Dopo gli eventi della prima stagione, la mente del protagonista è ancora confusa, ma non sono gli abissi della memoria a fare da leitmotiv e principio costruttivo di queste puntate, quanto la psicosi e l’ossessione.
In questo mondo, la narrazione procede quasi sempre per vie traverse, allegorie, illusioni. I dialoghi sono pochi, densi di teatralità e spesso ironici: orientarsi in questo labirinto è pressoché impossibile, e risulta più proficuo perdersi nei suoi meandri e vivere i suoi incubi elettrici.
Un ipotetico atlante di Legion potrebbe tracciarne alcune rotte fondamentali: la ricerca del corpo di Farouk; la rivelazione di una Apocalisse incombente; le dinamiche tra il Re delle Ombre e i suoi succubi, Oliver e Lenny; le vicende attorno alla Divisione 3 e al suo personale. Tuttavia, è meglio non affidarsi troppo a queste rotte: molti passaggi decisivi di Legion avvengono al di fuori della "storia" in sé, come nel caso del sesto episodio, che racconta possibili vite alternative di David in un montaggio parallelo che ha il sapore della tragedia. Legion sembra procedere con la logica di una composizione musicale più che con quella di un racconto audiovisivo, i cui ritmi e motivi sono narratori ben più affidabili delle impressioni visuali dalla mente di David o delle sequenze narrate dalla voce stentorea di Jon Hamm.
A un livello metanarrativo, la storia di Legion è la storia di una progressiva perdita di senso della realtà: un disorientamento nel quale tutto è possibile, a partire dalla banalità del male, compreso il Male in maiuscolo dei villain Marvel.
A volte, questo Male porta direttamente al padre spirituale della serie, in particolare di questa seconda annata: David Lynch. Legion nasconde un male metafisico, indefinibile, nascosto dietro alle maschere dei suoi supereroi. Alcuni episodi dichiarano esplicitamente il loro debito verso il regista di Twin Peaks, tra crostate di ciliegie e incarnazioni del male che sembrano arrivare dritte dall’indimenticabile ottavo episodio di The Return.
Legion mette in scena una serie di tematiche, come la malattia mentale e la natura delle ossessioni, e dà loro una forma. Forme mostruose, forme paradossali, forme invisibili: una cacofonia dove le atmosfere sci-fi anni Settanta incontrano l’estetica di MTV o le suggestioni del digitale del terzo millennio. In questo vortice di stili, citazioni, estetiche pop e ribaltamenti di senso, tutto è possibile: difficile non vedere la figura di Noah Hawley dietro a quella degli dei di questo mondo, David e Farouk. Demiurghi in grado di creare la realtà a loro piacimento, i cui scontri avvengono tanto sul piano fisico quanto in quella della pura astrazione. Hawley, uno degli showrunner più influenti e creativi del panorama americano, porta qui a termine l’operazione che aveva cominciato e progressivamente approfondito nel corso delle stagioni di Fargo: superare ogni vincolo o regola tradizionale della narrazione televisiva in favore di una narrazione del tutto personale e onnipotente resa possibile dai precedenti successi di Hawley per la rete FX, che sembra avergli dato carta bianca su qualsiasi aspetto della serie. Legion contraddice qualsiasi aspettativa, fa la spola tra il pop più spinto e il cinema sperimentale con una libertà che non teme di farsi nemici e perdere qualche spettatore per strada (fatto che si è effettivamente verificato, a giudicare dai dati di ascolto della stagione).
Il coraggio sconsiderato nelle scelte espressive e narrative porta ad un esito artisticamente riuscito e seduce chi è disposto ad arrendersi all’aut aut posto da Legion: prendere o lasciare. A volte, prevale il piacere di ricostruire il puzzle e trovare il senso di una sequenza o di un arco narrativo; più spesso, a prevalere è il piacere di essere colti alla sprovvista e di essere spiazzati da un improvviso cambio di registro, dal virtuosismo di una sequenza o di un dialogo, da un colpo di scena che si consuma tra immagini ipnotiche. Se il primo tipo di gratificazione è rivolto ad uno spettatore più tradizionale, il secondo si appella a chi vuole sfuggire alle tecniche e agli stili più in voga nell’epoca della peak TV e salpare verso il mare aperto, con annesso il rischio di naufragio. Del resto Legion si prende molti rischi e, talvolta, fa dei passi falsi: alcuni episodi non riescono a connettere a livello emotivo con lo spettatore a causa di una trama estremamente rarefatta, mentre altri risultano troppo lunghi e mancano di ritmo. In generale, la scelta di aumentare il numero di episodi da otto a undici sembra avere penalizzato la serie e dilatato i tempi di un arco narrativo che funziona meglio sulla breve o media distanza.
Nonostante questi limiti, Legion resta un’opera imperdibile e una dimostrazione che il futuro del linguaggio delle immagini su piccolo schermo non è mai stato così eccitante ed imprevedibile. Chi è disposto a tollerarne i cali e gli errori troverà che la mente di David Haller è una camera delle meraviglie da cui è impossibile uscire.