The Limehouse Golem
In risposta ideale al Dark Universe Universal, Medina firma una sofistica pellicola neogotica, squisitamente britannica, sospesa tra il thriller vittoriano e le atmosfere horror di casa Hammer.
Il sipario rosso carminio di un teatro vaudeville di fine ottocento si apre su un pubblico in fermento per la trasposizione delle gesta efferate di un misterioso serial killer, che si aggira tra i bassifondi londinesi firmandosi: il Golem di Limehouse. Si tratta di un colto antesignano del celebre “squartatore” di Whitechapel, che ama siglare i suoi omicidi evocando una vendicativa creatura della mitologia ebraica; mentre si diverte a provocare le autorità citando il pensiero di un suo contemporaneo, l’autore Thomas De Quincey, per cui il delitto è una sublime perfomance artistica. Sembra quasi di leggere, tra le pieghe dei suoi crimini, una tesi empirica sulla natura patologica della recitazione, del costume e del travestimento, nella sadica giustapposizione tra realtà e illusione.
Fin dall’inizio, Juan Carlos Medina sa come catturare l’attenzione dello spettatore, concentrandosi proprio sul binomio tra azione scenica e fattualità per realizzare The Limehouse Golem, una sofisticata pellicola neogotica, squisitamente britannica, in bilico tra il thriller vittoriano dalle tinte melodrammatiche e l’horror grandguignolesco che ha contraddistinto negli anni ‘60/70 le produzioni della Hammer Film. Del resto le tragiche vicende narrate si svolgono integralmente tra i vicoli orfani di luce, le quinte dei music-hall, i sadici tribunali e le biblioteche labirintiche della Londra del 1880. Una città che di per sé è già palcoscenico, in quanto capitale del gotico urbano moderno di stampo letterario (Il ritratto di Dorian Gray, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, Dracula), dove tutto è pantomima e ognuno indossa una maschera, nella vita come nella finzione.
Per questa ragione la storia si alterna su due piani narrativi destinati ad intrecciarsi: quello legato agli omicidi del fantomatico “mostro” di Limehouse, e quello legato alle disavventure della giovane star del varietà Elizabeth “Lizzie” Cree (Olivia Cooke), accusata della morte del marito commediografo (Sam Reid) avvenuta in concomitanza con la scomparsa del Golem. Il ruolo di anfitrione è affidato all’ispettore John Kildare (Bill Nighy), un taciturno detective di Scotland Yard impegnato in una lotta contro il tempo per scagionare l’attrice e smascherare il colpevole, districandosi attraverso un rebus di indiziati illustri come l’androgino cabarettista Dan Leno (Douglas Booth), il sovversivo filosofo tedesco Karl Marx (Henry Goodman) e il vizioso romanziere George Gissing (Morgan Watkins). L’indagine si consuma tra la strada e il palco, due livelli accomunati da una fitta trama di gelosie, scandali ed orrori e tenuti assieme dalle parole dello stesso Golem, annotate su un diario rinvenuto dal detective che si ritroverà a scrutare, tramite gli occhi dell’assassino, i recessi dell’animo umano; qui innocenza e mostruosità si scambiano i ruoli, mentre il pubblico applaude in platea.
The Limehouse Golem è tratto dal romanzo Dan Leno and The Limehouse Murder di Peter Ackroyd scritto nel 1994, un pastiche letterario dal sapore barocco e ricco di rimandi alla cultura delle mistery novel di Conan Doyle e E.A. Poe, contraddistinto da una forte vena satirica nei confronti della società inglese del tempo. Il pregio maggiore della trasposizione di Medina risiede nella sua capacità di aver saputo scegliere e adattare gli ingredienti giusti dal materiale di partenza, senza per questo perdere l’ispirazione smaccatamente letteraria della pellicola. Per farlo il regista si è avvalso della preziosa collaborazione della sceneggiatrice Jane Goldman (The Woman In Black, Miss Peregrine) e dell’apporto di Stephen Woolley, lo storico produttore di Neil Jordan (In compagnia dei lupi, Intervista con il vampiro).
L’atmosfera del film è perfetta, grazie ad un’ambientazione dickensiana che non lesina dettagli, sia quando si tratta di descrivere il sudiciume e la degradazione delle strade delle city in cui si muove il Golem, sia quando vuole ricostruire la feroce vivacità del music-hall di Dan Leno e i suoi equivoci teatranti. Entrambi vengono immortalati da una fotografia che rimanda a certo gotico di Tim Burton (Il mistero di Sleepy Hollow, Sweeney Todd), presentati da una narrazione fluida in cui gli eventi si snodano come capitoli di un feuilleton popolare, tempestato di monologhi interiori, digressioni melò e flashback sanguinolenti, elementi di sicuro impatto che però rischiano, in determinate situazioni, di disorientare lo spettatore. Fortunatamente a garantire una maggiore coerenza interna, tra l’azione e i momenti più intimisti, è la figura del dinoccolato Bill Nighy, perfettamente a suo agio, anche in questo film, nel ruolo del malinconico detective, vagamente ambiguo. Una parte che era stata inizialmente pensata per il collega Alan Rickman, prematuramente scomparso e a cui il film è dedicato.
A differenza del libro di Ackroyd, scritto come una cronaca minuziosa degli eventi dal punto di vista del solo assassino, lo script si presenta come un racconto corale in cui vengono esaltate le psicologie dei diversi personaggi che contribuiscono ad infittire la storia principale, tramite sottotrame personali collegate, in parte, alla soluzione del caso.
Tra queste spicca sicuramente quella della protagonista femminile Lizzie Cree, un’attrice caparbia, cresciuta trai soprusi dei docks londinesi e quelli delle mura domestiche, che anche nelle situazioni più disperate rifiuta il ruolo di vittima per ribellarsi con violenza alle convenzioni di una società maschilista. Purtroppo, a livello di sceneggiatura, è da sottolineare come proprio alcune digressioni eccessive riguardo le numerose vicissitudini della ragazza, nonostante l’intensità dell’interpretazione, rallentino troppo la tensione della narrazione, perdendo parte del mordente iniziale tanto da dare adito ad una speculazione legittima su una possibile serializzazione televisiva di un racconto che, forse, meriterebbe più spazio per poter essere sviscerato in tutte le sue sfaccettature. Tuttavia il risultato finale è un film indipendente tutt’altro che sgradevole, un buon prodotto d’intrattenimento che, nell’anno del rilancio faraonico del Dark Universe Universal (con il ritorno al cinema dei mostri classici e delle creature iconiche della casa di produzione hollywoodiana, affidati a grandi nomi dello star system) rappresenta una gradita alternativa e una coraggiosa risposta europea al monopolio statunitense.