Lost in Space
Il ritorno (fuori tempo massimo) della famiglia Robinson nella serie sci-fi targata Netflix.
Non ci fossero stati in mezzo un lungometraggio (discutibile) e la rivoluzione seriale più importante di tutti i tempi, parrebbe quasi venire direttamente dal passato un prodotto come Lost in Space, serie originale Netflix ispirata all'omonimo telefilm di culto del 1965.
Perché, se è vero che l'odissea spaziale della famiglia Robinson – tra schianti su pianeti sconosciuti e inospitali e una lotta per la sopravvivenza sempre più simile, episodio dopo episodio, a una corsa contro il tempo – non è certo priva di attrattiva, a partire dal suo solido impianto visivo ed effettistico, è altrettanto vero che la continuità con il passato leggero ed edulcorato della serie andata in onda per tre anni sulla CBS è garantita dal senso stesso di un'operazione che ha dell'archeologico, riesumazione spiazzante di un mondo riportato alla luce senza eccessivi strappi o stravolgimenti.
È proprio da quel passato intriso di conservatorismo che la serie reboot creata da Matt Sazama e Burk Sharpless e prodotta da Neil Marshall decide infatti di ripartire, accantonando gli esiti infelici del film di Stephen Hopkins del 1998 (Lost in Space – Perduti nello spazio) e aggiornandosi alla serialità ai tempi di Lost, pur mantenendo intatto il suo nucleo fortemente tradizionale.
Che il cult di J.J. Abrams abbia fatto, d'altronde, da modello principale alla vicenda di questi naufraghi spaziali – dall'impostazione corale al gusto per il mistero, dai flashback rivelatori ai colpi di scena – è evidente sin dal principio, ma è altrettanto chiaro come questo modello rimanga un'ispirazione di facciata, che la serie è incapace di portare a fondo limitandosi ad imbastire risvolti e percorsi narrativi costantemente abbozzati e mai realmente approfonditi.
Il risultato è uno sci-fi diluito e stemperato nei toni del family drama e nelle logiche di un politicamente corretto imperante, in cui tutto, dalla scrittura superficiale dei personaggi (tra cui spiccano il capofamiglia del Toby Stephens di Black Sails e, soprattutto, l'inedito Dottor Smith di Parker Posey) allo svolgimento (quasi sempre) lineare degli eventi, sembra partecipare a questa visione estremamente tradizionale e poco complessa.
Nell'anno di Annientamento e di un'idea di fantascienza “alta” e lungi dall'essere conciliante, Lost in Space va così nella direzione opposta, mostrandosi per quello che è (o per quello che vorrebbe essere): un'epopea avventurosa e ben curata per tutta la famiglia, senza quegli elementi di criticità o disturbo che la (apparente) confezione di sci-fi contemporanea farebbe supporre. Un obiettivo, quello di farsi prodotto confortante e sicuro per famiglie, che la serie però non centra appieno, presentando un'idea di intrattenimento in cui, paradossalmente, è proprio l'azione a latitare in una vicenda che vorrebbe emulare apertamente l'estetica e le dinamiche del più classico dei blockbuster ma che, proprio come i suoi personaggi, non riesce a uscire dal ristagno in cui è intrappolata.
Lineare e bidimensionale, Lost in Space arranca così per dieci episodi dagli intrecci elementari e dai colpi di scena spesso inconsistenti, riservandosi solo nel finale di stagione un cliffhanger degno di nota. Un salvataggio in extremis, per una serie datata che, tra una quotidianità simulata e posticcia e un universo (narrativo) abbandonato per lo più a se stesso, non si rende conto di esser nata fuori tempo massimo, lontano oramai dai gusti di quella famiglia ostinatamente inseguita e posta al centro della sua narrazione.