May
Il secondo lungometraggio di McKee indaga le dinamiche, già abbondantemente sondate, della solitudine nella/della diversità, costruendo però un’inaspettata “storia dell’occhio” tenera e brutale
Amore (philía) e Contesa (neîkos) sono, nella cosmologia di Empedocle, le due forze che innescano il dinamismo perenne della phýsis e che determinano l’insorgere e il decadere di tutti gli enti che la costituiscono, inglobando in tale processo anche la nascita e la morte degli organismi viventi. Nascita e morte che, nella visione del filosofo agrigentino, sono da intendersi esclusivamente come mescolanza e separazione dei quattro principi eternamente inalterabili (acqua, aria, terra, fuoco), di cui risultano composte tutte le cose che sono. La contrapposizione di tali forze non ne implica un’azione disgiunta, bensì connessa, ancorché, appunto, conflittuale.
È da tale congiunzione/contrapposizione, e solo da essa, che ha origine l’equilibrio del cosmo: un equilibrio che risulta fondato su ere cicliche di pace e di unione piena di tutti gli enti che costituiscono la totalità del mondo, fusi nell’unità assoluta dello Sfero, quando a prevalere sarà Amore, o viceversa di guerra e di totale separazione degli enti fra loro, quando a prevalere sarà Contesa. Fra i due picchi ciclici di massimo ordine e armonia o di totale disordine e disarmonia, estremamente esteso sarà il tempo intermedio in cui il mondo oscillerà fra il caos e l’euritmia, fra l’unione e la disgregazione degli elementi. In questi lunghi periodi di transizione, i corpi degli organismi viventi potranno non solo emergere come separati fra loro e sottoposti alla legge eterna dell’aggregazione/disaggregazione, ma, nelle fasi di massima egemonia di Contesa, risulteranno addirittura incompiuti – letteralmente, secondo la visione di Empedocle: torsi umani/animali senza braccia/zampe o senza testa, braccia/zampe senza mani/artigli e così via – e alla perenne ricerca di completarsi, attraverso l’unione in un corpo intero, unito e unico. Tale riunificazione, non essendo mediata dall’intervento di alcuna forma di intelligenza e derivando da un moto naturale e istintivo, che coinvolge la totalità delle membra separate e fluttuanti – sia umane sia animali – senza riposo né tregua, potrà talora configurarsi come imperfetta o, addirittura, arriverà anche a delineare l’insorgere del mostruoso, del deforme, di leggendari e spaventosi ibridi, nati dall’unione di parti incompatibili e disarmoniche. Un universo di freaks ante litteram.
May, secondo lungometraggio di Lucky McKee, sembra attingere a piene mani proprio dal mito che funge da orizzonte della cosmologia empedoclea – non senza richiami alla categoria del feticcio, che ne costituisce il corrispettivo psicanalitico – per costruire la tragica parabola di una fanciulla complessata, disturbata e dalla personalità in frantumi.
May Dove Canady soffre fin da bambina di ambliopia monolaterale o lazy eye, “occhio pigro”, disturbo che, oltre a compromettere la sua percezione visiva, ne deforma anche lo sguardo e la fisionomia, conducendola a venire mortificata e rifiutata dai coetanei. La madre, per colmarne la solitudine, le regala un’antica e preziosa bambola, ammonendola: “Se non riesci ad avere un amico, inventane uno” e poi, mentre May sta per estrarre il giocattolo dalla scatola, “non puoi tirarla fuori, è una bambola speciale”.
La crescita fisica della ragazza non sembra coincidere con alcuna corrispondente maturazione psichica: la pigrizia dell’occhio sembra essersi estesa alla totalità della persona. May, infatti, una volta adulta, pare essere rimasta immobilizzata a quel momento dell’infanzia, in cui la madre le aveva regalato quell’oggett, da subito trasformatosi in idolo, simulacro di affettività e fonte di adorazione sacrale, oltre a diventare il simbolo della profezia contenuta nelle parole materne: May non sarà capace di avere autentici legami affettivi, perennemente circondata dagli esseri inanimati che le fanno silenziosa compagnia (le molte e preziose bambole che decorano la sua abitazione, oltre all’”amica speciale”, regalatale dalla madre) e i radi contatti con gli altri esseri umani saranno sempre segnati dalla distanza, giacché, forse, la vera bambola intoccabile è proprio May. I goffi e malriusciti tentativi di legarsi affettivamente ad Adam (Jeremy Sisto) e alla collega Polly (Anna Faris), oltre a dimostrare la sua incerta e ancora acerba identità sessuale, vistosamente marcata dal prevalere di un sostanziale bisogno di tenerezza ed esclusività più che da un’effettiva pulsione fisica, condurranno May a risvegliare la parte ferina e istintuale della propria natura, anche se in assenza di una sostanziale malvagità.
La pigrizia della personalità della protagonista trova però un controcanto allucinato e perverso nella sua febbrile immaginazione, che fa confluire le sue idiosincrasie e debolezze verso le derive di una malsana e incoercibile forma di feticismo patologico. May teme l’umanità intera e, fragile come gli animali che accudisce presso lo studio veterinario per cui lavora, percepisce con un misto di impotenza e paura l’individualità dell’Altro, chiunque sia la persona che, di volta in volta, lo incarna. La ragazza non può che riversare il proprio desiderio, quindi, su di un surrogato in grado di ricostruire idealmente, nella propria parzialità, la totalità individuale di un soggetto umano qualsiasi: non ha quasi del tutto importanza quale sia la sua identità. Se, per parecchi anni, tale ruolo viene ricoperto principalmente dalla sua muta “amica speciale”, con cui May comunica come se si trattasse di un essere umano, viene il tempo, per lei, di rivolgere le proprie attenzioni al mondo dei vivi – al regno di Amore e Contesa – ma i vivi sanno anche essere molto sfuggenti e inaffidabili e, oltretutto, non possono rimanere chiusi per sempre all’interno di una scatola, non possono venire controllati in ogni loro manifestazione emotiva o intenzionale. Finché sono vivi, perlomeno.
May, guidata dalla propria allucinata fantasia – che trova una drammatica svolta allorché la sua adorata bambola viene fatta a pezzi, in una sorta di legge del contrappasso, da alcuni bambini ciechi che ella accudisce all’interno di un istituto – concepisce allora il folle progetto di crearsi un nuovo amico, qualcuno che non la abbandoni, non la rifiuti, ma sia sempre al suo fianco, silenzioso e fedele. Per sempre. E, visto che nessun individuo da lei incontrato è perfetto, ella ne prenderà, letteralmente, solo le parti migliori, quelle che stuzzicano la sua, infantilmente morbosa, fantasia. Non si salveranno né Adam né Polly e nemmeno altre occasionali vittime: May, dopo aver scelto le prede, le eliminerà con inaudita e ottusa violenza, preservando, di ciascuna, solo le membra prescelte per la sua ambiziosa creazione.
È in tale ordine di ragionamento che trova il suo spazio il richiamo alla cosmologia empedoclea, non importa quanto voluto o consapevole,nelle intenzioni del regista, giacché si tratta di un mito fondativo dell’Occidente e, come tale, strettamente intrecciato e organico al nostro immaginario; in ogni caso, se ne trova un rimando pertinente e sufficientemente esplicito, allorché, dopo la breve sequenza di apertura, cioè dopo il flashforward che rimanda alla conclusione del film, viene a situarsi una altrettanto breve e indicativa sequenza in cui pezzi staccati di bambolotti e pupazzi vari fluttuano, muovendosi dall’alto al basso, in una dimensione spazio-temporale indefinita, allucinatoria e per certi versi primordiale. Il richiamo al mito esposto da Empedocle si inserisce, per tutta la durata del film, in una quasi perfetta corrispondenza col folle progetto della ragazza. Quasi si diceva, giacché, nel caso di May, saranno la sua intelligenza e la sua volontà ad attivare la realizzazione della creatura e non le leggi della natura, in un’azione esclusivamente mortifera, anziché (anche) vitale.
Inoltre, estendendo tale ordine di considerazioni all’accostamento che da più parti e non di rado è stato delineato – non del tutto a torto, anche se un po’ frettolosamente – fra il personaggio di May e quello del Frankenstein letterario o cinematografico, è possibile notare come, differentemente dalla figura dello scienziato-fisiologo concepito dalla penna di Mary Shelley, May non intende generare la vita dalla materia inerte, bensì rendere docile e inerte la materia vivente. Ciò che vive, ma soprattutto pensa e vuole, come intelligenza separata, autonoma e libera non può che risultare incontrollabile (come effettivamente sarà, tra l’altro, proprio la creatura di Frankenstein nei confronti del proprio artefice) e perciò pericoloso per la fragilissima architettura emotiva della ragazza. Non a caso, May non conferirà un cervello alla sua bambola di carne, ma solo delle membra inerti, segno di una folle e coerente lucidità. Il problema finale riguarderà invece l’assenza, nel nuovo aberrante “compagno” di May – a cui la protagonista attribuisce il nome “Amy”, femminile anagramma del proprio, mostrando in tal modo il bisogno di avere al suo fianco un innocuo clone/proiezione di sé o magari una materna e inoffensiva replica della bambola-matrice – di un organo sensoriale fondamentale per il riconoscimento e, quindi, per la focalizzazione dell’attenzione: gli occhi. La bambola-feticcio ne è sprovvista, forse perché May non se l’è sentita di prelevarli dalle proprie vittime, in quanto organi visivi portatori di stupore, rifiuto, incomprensione, doppiezza. May, però, ha bisogno di qualcuno che la guardi con attenzione e affetto per sentirsi viva, accettata e protetta, ma gli unici occhi rimasti disponibili sono i propri, scelta obbligata, ma inefficace e vana. Del resto, come fidarsi di un lazy eye?