Speciale MUBI / Our Beloved Month of August
Il metacinema ironico e la docu-fiction antropologica e intimistica del lisbonese Miguel Gomes si incontrano nel caldo sospeso di agosto del suo secondo lungometraggio, disponibile nella Videoteca di MUBI con sottotitoli italiani inediti.
[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].
INTERVISTATORE:
Quindi è la fine della cinefilia, non l’inizio.
I critici amano l’idea che redimerà la realtà,
mentre è il contrario, la distrugge.
MIGUEL GOMES:
Non lo so. Non ho letto questi critici.
(David Phelps per Notebook, Mubi
Intervista a Miguel Gomes, 28 dicembre 2012)
C’è una straordinarietà nel flusso del reale, la realtà è la sua stessa cifratura: il silenzio che spalanca la reclusione soffocante di un Cavalo Dinheiro rompe quel flusso e ne fa vuoto colmo di memorie fotografiche; le canzoni che intervallano come clip musicali il Our Beloved Month of August (Aquele Querido Mês de Agosto) gomesiano documentano la finzione, mentre simulano la realtà. Attraverso il suono scorre un codice, tecnico e immaginifico, così soggettivo da essere oggetto di discussione della troupe che i titoli di coda didascalizzano, mestiere per mestiere, dito puntato al fonico che registra tracce che non ci sono, che pure lui sente, fantasmi nell’ambiente sonoro: e mentre si parla, irrompe, over, il brano Adeus Amigo, a spiazzare nuovamente il senso di realtà, quel tentativo di buonsenso documentaristico che Miguel Gomes avrebbe programmaticamente respinto al pari della finzione, enunciando l’impossibilità della coesistenza delle due cose, nel successivo Mille e una notte – quel capolavoro fluviale, epico, cine-monumentale che poche sale, e per poco tempo, hanno conosciuto.
In quella doppia abdicazione al narrare storie di fantasia e al denunciare la miserevole condizione politico-economica del Portogallo, perché «non si può fare un film militante che dimentica la militanza e inizia a evadere dalla realtà: è tradimento, disimpegno, dandismo», il regista-Gomes evaderà il proprio ruolo per farvi ritorno sotto (finta) minaccia di morte e a (vera) norma di legge, e svicolerà la contraddizione delegando il racconto a un narratore antonomastico: Shaharazade.
Il mese di agosto è una Shaharazade ante litteram, un pretesto che si sostanzia e diventa immagine cinematografica consapevole di esserlo. È allo spettatore che sfuggono i confini; si sfumano le tracce di una codificazione che farebbe di tutto ciò un sistema di segni. La regia gomesiana è invece quell’occhio di volpe al di là del recinto che, non visto, si svela e disperde galli e galline al di qua: scavalcando la provocazione vontrieriana, rimescolando le carte ordinate di un Rosi, ricontestualizzando l’intimismo di un Reygadas, è cinema del singolo e della comunità, della realtà e dell’incanto, della semplicità delle immagini e della complessità dei dubbi, della concretezza e della perplessità, della coerenza e della contraddizione, della prossimità e della divagazione.
Il mese di agosto è nel verso di una canzone che parla del ritorno e in una che parla di addio: “Mio caro mese di agosto / per te passo tutto l’anno a sognare”, cantava negli anni ’90 Dino Meira, autore di quella musica popolare che, coverizzata su basi elettroniche, molesta i palchi estivi dei paesini per la gioia popolare del ritrovarsi, del celebrare l’appartenenza a un luogo nelle sue stagioni. “Amico mio, non dimentico il tuo volto (…) il nostro sole, il nostro caro mese di agosto” lo omaggiava Tony Carreira in Adeus Amigo. Poche cose sono portoghesi come l’addio e il ritorno. È questione, come sempre, di geografia e poi di storia. Del situarsi al margine di un continente e al principio di un oceano, dell’aver solcato il secondo un tempo, dell’essere piombati ancora più al margine del primo, un altro; dell’essere gli ex colonizzatori neocolonizzati d’Europa, impossibilitati al viaggio, costretti alla migrazione, con la propria comunità di migranti, con alle spalle il sogno del Quinto Impero e 48 anni di dittatura; con indosso, sul piccolo palco di un paesino del nord – un sud Italia retrodatato – mentre si intona una canzone sentimentale, una t-shirt gialloverde con su scritto “Brazil”.
Il mese di agosto è quello in cui gli emigrati in vacanza tornano a casa, per passarci, appunto, un mese, per rivedere amici e parenti, per lamentarsi della terra che amano in cui è stato impossibile restare. “Viajo porque preciso, volto porque te amo”, Viaggio perché devo, torno perché ti amo, per dirlo col titolo del film brasiliano di un altro Gomes, Marcelo, e di Karim Aïnouz. Storia dell’andare e del disperdersi, viaggio di lavoro nel sertão che diventa rarefazione dei legami, progressivo abbandono, riconoscimento antropologico nella geologia del paesaggio. Ad Arganil, distretto di Coimbra, non c’è deserto, ma suoni di boschi e torrenti e la rarefazione è tutta demografica. Gira un pollo sullo spiedo per la festa patronale, girano le rotative della “Comarca de Arganil” che annuncia la festa. Fondato il primo gennaio 1901, il giornale, che diffondeva notizie della regione, diventò un punto di riferimento per gli emigrati in Angola, Mozambico, Brasile, e successivamente Francia e Germania, tanto da essere rinominato “lettera di famiglia”, ci racconta il nipote del fondatore.
Nel mese di agosto quella famiglia torna vicina con i suoi legami e i suoi conflitti. Di una madre non si hanno più notizie. L’hanno presa gli alieni, ma è bene che resti un segreto. Su uno sfondo di pianeti dispersi nel buio cosmico, l’ombra di padre e figlia si abbracciano con troppa intensità. E troppo intensi sono i fuochi di agosto, tanto da bruciare ettari di bosco, da uccidere chi non fa in tempo a fuggire o ad essere salvato – a Pedrógão Grande, nel 2017, a 9 anni da questo film, a 2 dal successivo che torna a citare il dramma degli incendi, è stato il disastro, per scarsità di risorse. I fuochi dell’animo ardono di desideri illeciti, ma in fondo realizzabili, per via di quell’estate che, ad agosto, risolve i rancori e assolve i Tabù fra le lenzuola, espleta il distacco fra le lacrime o con un riso liberatorio. Sentimenti transizionali. Lessico cinematografico. Visioni retrospettive.
Aquele querido mes de agosto compare, con inediti sottotitoli italiani, nel suo debordante flusso, nel flusso delle immagini online che diventa selezione autoriale su una piattaforma, MUBI, che, narra la leggenda, nasce in un bar di Tokyo dal vuoto cinefilo procurato nel suo futuro CEO dall’impossibilità di vedere In the Mood for Love, hic et nunc. Dove lo streaming si è sostituito al possesso, il nuovo possesso è la reperibilità. Bene immateriale e transitorio di pietre miliari e di titoli di passaggio, scie festivaliere, altrimenti destinati a restare invisibili. Il tutto sugli individual media che salvarono gli animi in quarantena. Non è scontato in quale direzione procederà l’arte mutevole per eccellenza, su quale rotta viaggi il presente – ci è stata offerta una discreta lezione di imprevedibilità.
In attesa dell’autunno, in un’estate di sale chiuse, città vuote e comete vicinissime, c’è ancora tutto un agosto, da vivere, da ripensare, da amare moltissimo, gomesianamente, senza dandismo.