Il rituale
Foreste infestate e riti sacrificali nel buon horror targato Netflix di David Bruckner
The Blair Witch Project, La casa, The Wicker Man (Ritual, non a caso, il titolo del romanzo da cui era tratto il film di Robin Hardy). Ma anche I guerrieri della palude silenziosa, Le colline hanno gli occhi, Cabin Fever. Compaiono non appena evocate le decine di riferimenti cinematografici che stanno dietro a un film come Il rituale, piccolo horror boschivo e demoniaco che non teme la ripetizione, il già visto, il deja vu.
Pare non aver bisogno di altro, in fondo, l'esordio nel lungo dello statunitense David Bruckner (alle spalle la co-regia di The Signal e degli antologici VHS e Southbound), capace com'è di riversare nella disavventura di quattro amici inglesi (Rafe Spall, Robert James-Collier, Arsher Ali, Sam Troughton) in vacanza nei boschi della Svezia, tra rimorsi e sensi di colpa per la morte recente e drammatica di un loro compagno, un intero immaginario fatto di foreste e presenze invisibili, capanni abbandonati e simboli esoterici, ma, allo stesso tempo, anche in grado di infondere alla materia trattata un respiro nuovo e rigoroso, un tocco esperto e misurato che fa di questo titolo tutt'altro che originale un film sorprendentemente valido e interessante.
Prodotto dalla Imaginarium di Andy Serkis e distribuito da una Netflix smaniosa di farsi perdonare una serie di titoli di genere tutt'altro che brillanti, Il rituale diviene così un horror che tenta di dissimulare la propria natura di ibrido, lontano sia da facili citazioni e strizzate d'occhio che da derive postmoderne inevitabilmente subissate dalla sua avvolgente immediatezza.
Il risultato è un dramma serrato e claustrofobico infarcito di minacce invisibili e deliri paranormali, una fuga continua dentro una prigione fatta di legno e foglie, innalzata per nascondere (e contenere) un orrore appena intravisto e suggerito, misterioso e oscuro come una leggenda pagana dimenticata.
È così che, lasciatasi alle spalle l'estetica traballante da found footage in favore di una regia misurata e dalla mano ferma, Bruckner dà vita a un incubo dove, nella sua ineffabilità, il Mostro si confonde inevitabilmente con i fantasmi dei protagonisti, con le loro inadeguatezze e i loro sensi di colpa, fino a comparire, suggestivo e terrificante (evidente l'apporto effettistico del Keith Thompson di Guillermo del Toro), in un finale dal gusto catartico e oscuramente fantasy.
Tra misteriosi riti sacrificali e incubi ad occhi aperti, boschi immersi nell'oscurità e divinità brutali, va così in scena la più classica lotta contro i (propri) demoni, una formula fatta di paura, riscatto e luoghi comuni, all'interno di cui il genere ritrova la propria paradossale genuinità scoprendo le (nuove) possibilità di un filone potenzialmente inesauribile.