Les images qui vont suivre n’ont jamais existé
Forse la prima singolarità mediale del cinema contemporaneo, uno spazio in cui pop e classico, realtà e immaginario, analogico e digitale si incontrano. Un lucidissimo, tragico poemetto sull’inesorabile mutamento dell’immagine, che vince il 58° Pesaro Film Festival.
Twister esce nelle sale americane nel maggio del 1996 e, oggi, quasi trent’anni dopo, il film di Jan De Bont ci appare come un prodotto affascinante proprio perché distante dal modo di pensare certo cinema oggi. Non tanto per la dimensione creativa, straordinariamente di lusso, che lo caratterizza (a scriverlo è Michael Crichton e, soprattutto, a produrlo è la Amblin di Steven Spielberg, quasi che si cercasse un equivalente “catastrofico” con cui bissare il successo di Jurassic Park), quanto per lo spazio esperienziale in cui si inserisce, quello delle proiezioni collettive, in cui il pubblico “subisce” su di sé e moltiplica, grazie alla visione condivisa, l’impatto emotivo di quelle immagini. Proprio nei giorni di uscita del film, tuttavia, una proiezione nel Drive In della cittadina canadese di Fronthill salta a causa di una (vera) allerta tornado.
Eppure, secondo alcuni testimoni, c’è qualcosa che non torna: diversi dei presenti dichiarano infatti che il film venne normalmente proiettato almeno fino a quando la pioggia e il vento non ebbero la meglio ed il pubblico non fu costretto a scappare per mettersi al sicuro; tutto falso, in realtà, è un’illusione che coinvolge tutti i presenti, un falso ricordo, probabilmente sviluppato ad hoc dai cittadini più smaliziati per pura goliardia.
La spiegazione razionale però non basta a Noè Grenier, che non ci sta, non si accontenta. Nel suo Les images qui vont suivre n’ont jamais existé, film vincitore della 58° Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, il giovane regista francese si infila nel sottile sostrato che separa vita reale e immaginaria per ricostruire gli eventi di quella sera. Il punto di partenza, la griglia di segni da ricombinare, gliela offre il trailer originale in 35mm dello stesso Twister. E così Grenier prende quelle immagini apocalittiche, le manipola, le velocizza, le sovrappone, le presenta allo spettatore in una successione simultanea e tripartita, nel tentativo di moltiplicare i punti di vista e di raccontare a chi guarda cos’è accaduto quella sera, per quanto caotico, indefinito, paradossale possa essere lo spazio referenziale.
Ne viene fuori un progetto asciutto ma straordinariamente diretto, che riflette sul potere immaginativo dell’essere umano, sulla sua capacità di creare immagini a partire da quel serbatoio in perenne aggiornamento che è il cinema. Il retroterra teorico è lo stesso di Žižek. Realtà e immaginario sono spazi separati ma un trauma abbastanza potente può mettere in contatto i due contesti: come gli aerei che si schiantano contro il World Trade Center trasformano la realtà in un film di guerra, così il tornado che, secondo la leggenda metropolitana, ha colpito Fronthill fa immergere i presenti in un vero disaster movie. Grenier tiene presente quel velo “immaginifico” e riflette giocosamente sulle interferenze tra realtà e cinema; per guardare criticamente a ciò che è vero e ciò che non lo è, certo, ma anche per mantenere la presa sull’immagine, sul medium, prima che tutto cambi. Perché nel costruire il suo film, nel ricreare la magia – l’illusione collettiva, come è stato scritto – in realtà Grenier non fa altro che svelare la transitorietà di un evento che esiste solo nel qui ed ora della sala di montaggio, nell’artigianato del gesto che manipola i fotogrammi, nel rumore del proiettore che a tratti sovrasta le immagini, che non può essere riproducibile e anzi restituisce alla perfezione la distanza che c’è tra l’idea di cinema di allora, comunitaria e condivisa, e quella, liquida, malleabile, del medium di oggi, le cui strutture non possono che interferire con lo spazio laboratoriale di Grenier.
Per questo Les images qui vont suivre n’ont jamais existé è soprattutto un poemetto tragico su uno spazio mediale che cambia malgrado ogni tentativo di mantenere l’equilibrio, un affascinante video saggio che è probabilmente la prima, lucidissima emersione di una sorta di singolarità mediale in cui si incontrano il passato e il presente del nostro secolare rapporto con l’immagine, analogica o digitale che sia. Di qui, nei fotogrammi del film di Grenier, si intravede un vertiginoso esperimento sulla Post-Verità, o meglio su una sua variante “bianca”, in cui il trucco è svelato fin dall’inizio (“Le immagini che seguono non sono vere”, recita il testo che apre il progetto) e tutti gli elementi concorrono a creare una sorta di miraggio nutrito dall’esperienza cinematografica. Questo seppur il linguaggio sia sempre lo stesso, comunque carico di profonde ambiguità, a tratti addirittura estremizzato, a tal punto che Grenier potenzia le immagini, le espande grazie a dei fulmini aggiunti in sovraimpressione che con il trailer di Twister non hanno nulla a che fare. Ma si può andare oltre, approfondire il paradosso, ragionare su certe traiettorie impreviste ma straordinariamente affascinanti del fotogramma, sull’immagine tripartita del Napoleon di Gance che interferisce con il linguaggio del blockbuster, o su certe continuità impossibili tra idee diverse di cinema popolare. Si tratta, evidentemente, dei momenti concettualmente più vertiginosi del film di Grenier, che seziona e riposiziona a tal punto un blockbuster per cui l’unico elemento veramente leggibile è il primo piano di Bill Paxton, che costruisce il contesto e crea una connessione emotiva per lo spettatore come accadeva con i volti del cinema classico. Ma è evidente che, in tutto questo, il centro di questa singolarità è proprio Grenier, che lucidamente opera il suo piccolo miracolo collettivo abbracciando il paradosso senza paura delle conseguenze.
Perché le immagini di Les images qui vont suivre n’ont jamais existé, malgrado siano legate al sistema analogico che le genera, malgrado, soprattutto, provengano da un 1996 che non esiste, sembrano ragionare seguendo il linguaggio spurio dello spazio digitale, sono soggettive sporche, frettolose, panoramiche rapide e caotiche di uno spazio su cui si sta abbattendo una catastrofe simile a quelle che si vedono su Youreporter; perché il film di Grenier si muove sulle coordinate di un remix dal piglio straordinariamente contemporaneo e, di fatto, racconta la costruzione di un falso ricordo che procede a forza di link e ipertesti; perché l’esperienza della sala, qui, è una pura e labile evocazione; in realtà, a ben vedere, l’unico setup di visione inscindibile dal film è quello di un montatore chino sulle bobine, intento a sezionare i fotogrammi, quasi una eco ectoplasmatica dell’esperienza di fruizione “in solo” che sempre più caratterizza la contemporaneità.
È un film straordinariamente affascinante Les images qui vont suivre n’ont jamais existé, proprio per l’afflato disperato che lo anima, quello di un creativo che guarda un intero mondo di segni cambiare e che tuttavia è pronto a lavorare tra gli spazi per ricreare il miracolo della visione o, almeno, per non perdere la lucidità del suo sguardo e riflettere sui mutamenti dello spazio mediale con cui si interfaccia.