Aniara

di Pella Kågerman Hugo Lilja

Il film tratto dall'omonima space opera di Martinson incastra l'umano tra fantascienza e cinema d'osservazione.

Aniara - recensione film kagerman lilja

Aniara nei suoi primi minuti sembra essere un racconto fantascientifico personalizzato, dedicato esclusivamente a un personaggio, alle sue reazioni psicoemotive e ai suoi spostamenti espressivi all’interno del contesto complesso che lo accoglie. Le inquadrature iniziali del film di Pella Kågerman e Hugo Lilja (tratto dall’omonimo romanzo di Harry Martinson) raccontano del semplice accesso a un mondo ambiente - sconosciuto per lo spettatore posizionato fuori dal testo - mediante la descrizione prossemica, il pedinamento dell’individuo presente nel testo e quindi del semplice percorso conoscitivo del singolo nella collettività, nel tutto nuovo, nel costrutto sociale ignoto. Come narrazione bilanciata sull’asse dell’individuo e quindi sulla prospettiva del singolo sui molti, il film percorre i primi slalom narrativi trattenendo la propria storia a una misura giornaliera, giocata sulla percezione dell’unità minima psicologica, sociale e temporale: responsabile della gestione di un programma simulativo in grado di immergere i viaggiatori della crociera spaziale in rigogliosi ricordi passati, noto come Mima, la donna protagonista cerca di comprendere la propria posizione in quel nuovo microcosmo che dovrà abitare per due settimane prima dell’arrivo su Marte.

Aniara è infatti una nave di viaggio, partita dalla Terra – ormai non più abitabile per la desertificazione (accennata solo da implicite battute e da un esplicito campo lunghissimo) – diretta verso il pianeta rosso. Un incidente inatteso tuttavia costringe la nave a una deviazione drastica. Questo evento narrativo sposta l’equilibrio organizzato nei minuti iniziali, quello della narrazione personalizzata e misurata, a un nuovo equilibrio strutturale, depersonalizzato e collettivo, senza precisa riduzione personale e dedicato allo scorrere del tempo. In breve il film ridimensiona le sue premesse e da racconto individuale (centrifugo) sulle reazioni spettatoriali a un nuovo contesto si traduce a racconto sociale (centripeto), imperniato sull’analisi fredda e distante – si potrebbe dire cartesiana, per la natura meramente bidimensionale della documentazione visiva – degli eventi lasciati allo scorrere del tempo. La scatola significante – la nave – diventa gabbia per esaminare la reazione della collettività all’evento sconvolgente: quella della protagonista è solo una risposta indistinguibile (assimilabile) tra le tante – dall’incompetenza bugiarda delle istituzioni al ritorno a un tribalismo religioso - rilevate grazie al guadagno del punto di vista del tempo.

Abbandonando il cinema narrativo e abbracciando quello di osservazione – in un contesto fantascientifico funzionale solo a stressare con l’immaginazione le tematiche fino al parossismo più orrorifico – Aniara ottiene un punto di vista umanista scevro di ingenuità sul decorso culturale della storia umana e sulle prospettive future che ci attendono. La sua analisi della reazione della collettività a una tragedia inspiegabile – a un’urgenza umanitaria - è messa in scena puntuale di proiezioni sociologiche pessimiste e allo stesso tempo riflessione sulle ragioni del decadimento, del fallimento culturale e umano. Alla deriva nello spazio, gli abitanti della nave non attivano le loro coscienze per formulare soluzioni per la sostenibilità sociale: attendono un aiuto esterno e intanto scelgono di occupare il proprio tempo e la propria speranza in prolungate sessioni al simulatore. Ai confini del futuro, spinto verso nuovi mondi e costretto a inventare nuove soluzioni per sostenere la vita, l’uomo fallisce perché non è più capace di immaginare un futuro. Preferisce l’involuzione dell’immagine di un eden irraggiungibile fisicamente, ma virtualmente percettibile, il lento ammorbidirsi della morte sul proprio occhio, la riduzione del pensiero a archiviazione di momenti migliori. L’attesa che qualcosa succeda anche alla fine del tempo.

Autore: Leonardo Strano
Pubblicato il 15/11/2019

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