The Perfection
L'ultimo, imprevedibile horror di Netflix gioca con generi e aspettative, regalandoci una storia di violenza ed efferatezze inedita per la piattaforma.
Chissà se, mentre assemblava e metteva in scena, tra trovate gore e immagini perturbanti, il suo The Perfection, Richard Shepard (regista, tra gli altri, di film come The Matador e The Hunting Party) abbia mai pensato all'Audition di Takashi Miike.
Di sicuro aveva ben in mente Il cigno nero di Darren Aronofsky quando ha deciso di riproporne dinamiche e immaginario, collocando il suo piccolo horror all'interno di quel filone (preferibilmente ambientato nel mondo della musica o dello spettacolo) fatto di individui talentuosi, rivalità striscianti e dell'intramontabile e abusatissimo tema del doppio.
Pare girare proprio attorno a questo l'ultima fatica produttiva di Netflix, piattaforma sempre attenta (soprattutto per quanto riguarda i prodotti di genere) a non allontanarsi mai troppo dai binari del già visto, riproponendo pedissequamente temi e strutture ben consolidate.
Eppure, superate le premesse iniziali – due violoncelliste enormemente dotate (le affiatate Logan Browning e la Allison Williams di Scappa – Get Out), una in caduta libera, l'altra in piena ascesa, entrambe determinate a tenersi stretta la stima del loro mentore/benefattore – e un primo atto decisamente convenzionale, The Perfection cambia brutalmente rotta, segna le distanze da Aronofsky e opere affini e fa dei colpi di scena e dei plot twist la sua cifra dominante, fino a toccare generi e sottogeneri solo apparentemente inconciliabili.
È proprio qui, nei territori anomali e allucinati dell'horror più grezzo e sadico, mentre il thriller passionale lascia bruscamente il passo all'incubo soprannaturale e la minaccia pandemica si tramuta presto nel revenge movie più estremo, che il film fa a pezzi le proprie premesse (e non solo), riscattandosi da una partenza piatta e ingannevole e buttandosi a capofitto in un dramma fatto di prevaricazione e ossessione, di inaspettate efferatezze e di rituali degenerati, dove il talento (sprecato, rubato, ottenuto a caro prezzo) e quella “perfezione” cui inevitabilmente tende, non sono più un traguardo da raggiungere ma un fardello ingombrante da cui liberarsi, da cui scappare o, in casi estremi, da mutilare, annientare, rendere una volta per tutte inoffensivo.
Accogliendo e facendo propri un gusto e un'estetica respingenti e, a tratti, insostenibili, fatti di amputazioni, sangue e rigurgiti vari, Shepard sparpaglia così le carte in tavola, dando vita a un prodotto spiazzante e sfacciato, persino assurdo nelle sue approssimazioni e nei suoi enormi buchi di sceneggiatura, ma capace comunque di bilanciare perfettamente toni e registri, forte di una tendenza a non prendersi mai veramente troppo sul serio.
Il risultato è quello di un film lontano da riflessioni o intellettualismi di sorta, che prende (rigorosamente dalla superficie) tutto ciò che può da esempi orrorifici anomali e distorti spesso lontani dal gusto occidentale (vedi Miike), riuscendo a essere un buon prodotto di intrattenimento, audace quanto basta per risplendere in un'offerta horror troppo spesso manchevole di sorprese, scossoni, sanguinose prese in giro.