Sam Was Here
Un’ulteriore "road to nowhere" americana, osservata dallo sguardo “alieno” di un regista francese: ennesimo ma felice incontro fra road movie e horror.
Il road movie ha donato al cinema uno dei filoni narrativi più fertili nell’incarnare l’intima connessione fra l’individuo e l’ambiente, là dove quest’ultimo si configura non solo come alterità da scoprire e decifrare in tutte le sue lusinghe e i suoi magmatici misteri, ma anche e soprattutto come immagine speculare dell’interiorità, di quella zona oscura e di confine che prende la denominazione di inconscio.
Non è un caso che, una volta incrinato il Sogno Americano a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, una volta scoperchiato il vaso di Pandora delle insanabili contraddizioni e dei fantasmi per troppo tempo rimossi dalla coscienza della Grande Nazione, i film realizzati negli USA comincino a mutare di segno e a guardare a nuovi linguaggi, temi, orizzonti valoriali. Il western, dopo aver abbandonato la propria aura epica in favore di personaggi sempre più antieroici e di racconti sempre più lontani dalla retorica della conquista della Frontiera, letta originariamente come l’impresa di un manipolo uomini di buona volontà contrapposti alla wilderness e ai suoi abitanti, lascia progressivamente spazio al road movie, appunto, e non di rado alle sue contaminazioni col nascente New Horror, cioè con la nuova stella polare della produzione indipendente americana. L’American Dream si trasforma così, passo dopo passo, nell’American Nightmare, la (spesso falsa) coscienza lascia spazio all’irrompere dell’inconscio. Tuttavia, se il road movie “puro” promuove l’ansia di libertà del singolo (Easy Rider ne è l’esempio più ovvio e lampante), la sua necessità di fuoriuscire, letteralmente di fuggire, dalle secche di un consorzio civile sempre più conformista e repressivo, quello contaminato con l’horror mostra l’altra faccia della medaglia, vale a dire l’immersione inquietante dell’universo borghese (incarnato, più che dagli adulti, dai loro eredi adolescenti) nelle roads to nowhere di un paese ancora ricco di mistero e tutt’altro che docile verso l’uomo bianco e la sua ottusa convinzione di esserne l’incontrastato padrone.
Va da sé che smarrirsi in una lost highway – poco importa se con l’aggravio di concrete minacce fisiche – equivale, per l’uomo urbanizzato, a ritrovarsi di fronte alle paure ancestrali che sopraggiungono al cospetto di territori privi del conforto della civiltà. E chiaramente, vedere rilevati i propri limiti, tramite la concretizzazione di tali atavici terrori, corrisponde ad assistere alla messa a nudo del proprio carattere, della propria (in)capacità di reazione alle sollecitazioni del pericolo e della sopravvivenza: in breve, la perdita della sicurezza, non più demandata alle istituzioni bensì messa nuovamente nelle mani del singolo, rivela a quest’ultimo, senza infingimenti e sovrastrutture, chi egli sia nella sua più profonda essenza.
Sam Was Here (distribuito anche col titolo evocativo e maggiormente ambiguo di Nemesis), esordio nel lungometraggio del francese Christophe Deroo, sviluppa un congegno narrativo certamente debitore proprio della contaminazione fra road movie e horror di cui si diceva, riuscendo comunque a mantenere in ottimo equilibrio una corposa stratificazione tematica, innumerevoli influenze letterarie e filmiche, oltre che un racconto dalle molteplici e ambigue sfaccettature. La vicenda di Sam Cobritz (Rusty Joiner), venditore porta a porta disperso in un villaggio del deserto del Mojave in California – una vera e propria no man’s land apparentemente disabitata – offre lo spunto per un’articolata riflessione sulla solitudine, sulla colpa (individuale e collettiva), sull’indiscernibilità fra vero e falso, sul senso di impotenza del singolo individuo civilizzato al cospetto della wilderness e di una comunità ostile di rednecks, e infine sulla facilità con cui l’uomo contemporaneo possa veder mutare radicalmente di segno le confortevoli coordinate su cui ha edificato la fragile impalcatura della propria visione del mondo.
In prima istanza, emerge la condizione dell’homo americanus, una volta bloccato all’interno di una delle innumerevoli aree periferiche del proprio paese, un paese che egli ritiene di conoscere e controllare innanzitutto grazie ai mezzi di locomozione e di comunicazione. L’ambizione di dominio territoriale si rivela in tutta la sua disarmante illusorietà, allorché il soggetto si ritrova posto di fronte alla pochezza della propria capacità di reazione agli input ambientali, in quanto privato del supporto tecnologico. Da questo punto di vista, Deroo gioca molto bene le proprie carte, calando l’ambientazione temporale della vicenda alla fine degli anni Novanta, cioè in un’epoca in cui la telefonia mobile e internet stavano muovendo solo i primi e incerti passi, e quindi rendendo più credibile lo stallo comunicativo del protagonista. Sam, da controllore della propria vita (pubblica, giacché quella privata sembra già decisamente alla deriva) e delle proprie azioni, diviene dapprima vittima di eventi apparentemente scollegati (l’abbandono e l’incuria del luogo, l’assenza di abitanti, il malfunzionamento delle linee telefoniche e della propria automobile), per poi finire con l’essere controllato: invisibili videocamere scrutano i suoi movimenti, degli allarmanti messaggi cominciano a comparire sul suo cercapersone elettronico, degli individui mascherati cominciano a dargli la caccia, mentre una rossa luce aliena nel cielo sembra osservarlo e la voce di un presentatore radiofonico (Sigrid La Chapelle) – per molti tratti del film, l’unico autentico e paradossale “contatto” del protagonista col mondo dei viventi, da cui pare tagliato fuori – pungola gli invisibili cittadini della comunità a trovare e catturare un misterioso killer di bambini, la cui identità sembra sempre più corrispondere, mano a mano che la vicenda procede, proprio a quella Sam.
Per Sam, la paura dell’isolamento si accompagna quindi, a un secondo livello, a quella verso la misteriosa cospirazione di cui egli stesso pare l’obiettivo, senza che il regista sia prodigo di indizi per far raccapezzare lo spettatore. L’indecidibilità fra vero e falso, il conflitto fra il realismo (sia pure contrappuntato da tenui segnali onirici) dell’ambientazione e la dimensione allucinatoria degli eventi conferiscono alla vicenda la calibrata tonalità enigmatica e oscura propria dell’incubo a occhi aperti. Per il protagonista, il passaggio dalla condizione di vittima designata a quella di capro espiatorio è decisamente breve: a Deroo preme evidenziare, più che l’incerta colpevolezza di Sam (tutta da dimostrare e peraltro cancellata dalla sua assenza di ricordi espliciti dei suoi eventuali crimini), la facilità con cui una comunità regredita e bestiale decida della sua sorte, in guisa di giuria e carnefice. È sul versante della caccia sadica al malcapitato che si situano anche i momenti più tesi e dinamici di un film che funziona altrettanto bene – forse meglio – in quelli sospesi, al limite del metafisico, in cui il paesaggio abbandonato e allucinatorio del deserto del Mojave è un protagonista aggiunto, una sorta di Zona, di inferno dei vivi (o magari di anime già perdute e dannate, anche se dotate ancora di sembianze umane), proprio in quanto scrutato dallo sguardo alieno di un regista europeo, che intensifica quello del suo già sconcertato protagonista-.
Deroo immerge il film in un’atmosfera malata e polverosa, ricca di rimandi letterari (Matheson, innanzitutto), pittorici (tra le varie possibili notazioni, si può citare la presenza di un quadro di Hopper appeso su uno dei muri del motel in cui si rifugia Sam) e filmici (da Carpenter, che funge da nume tutelare anche del comparto musicale, a Polanski, passando per Lynch o per titoli fondamentali come Duel o The Hitcher), che però non pesano sull’equilibrio complessivo di un’opera prima inafferrabile – e perciò affascinante – come il vento del deserto.