Sauna
Suggestioni nordiche e vaghe reminiscenze tarkovskijane in un viaggio accecante nel cuore nero della natura umana.
Il presente non è che il passato di un altro tempo, indecifrabile e di là da venire, che tuttavia inevitabilmente giungerà per chiedere conto di ciò che si è compiuto in nome della propria volontà, o magari seguendo l’invisibile filo del proprio destino. Infatti, tutto ciò che appartiene al passato muore in esso, a parte, forse, la colpa.
È su questo orizzonte morale ed esistenziale che si innesta il racconto di Sauna, piccolo e nero gioiello filmico proveniente dalla Finlandia, e realizzato ormai quasi dieci anni or sono. La vicenda si snoda prendendo le mosse dalla conclusione di uno dei molti conflitti che videro antagoniste Svezia e Russia fra Medioevo ed età moderna; nella fattispecie, il riferimento storico è la guerra che le due monarchie combatterono fra il 1590 e il 1595. Il focus del film riguarda invece gli accadimenti che una delegazione mista russo-svedese è costretta a fronteggiare nell’avventurarsi verso il nord della Carelia (anche se le location prescelte si trovano in Repubblica Ceca) per ridefinirne i confini, all’avvenuta cessazione delle ostilità. La rappresentanza svedese è composta da due fratelli finlandesi (alla fine del Cinquecento, la Finlandia rientrava nei possedimenti del regno di Svezia), il guerriero Eerik (Ville Virtanen) e il cartografo Knut (Tommi Eronen), che risulteranno essere le due figure centrali della narrazione. Il regista Antti-Jussi Annila costruisce il racconto dapprima seguendo le vicende del drappello nel suo insieme, con alcune significative focalizzazioni su Eerik e Knut, per poi giungere a tirarne le intricate fila attraverso un’articolata parte finale, composita e spiazzante.
Il procedere della spedizione all’interno di un territorio inesplorato e selvaggio si dipana come un viaggio ai confini della realtà, in un vero e proprio impero dei segni, la cui decifrazione diviene lo scopo principale dei personaggi: dalla realtà alla mappa e viceversa, in un continuo scarto fra la complessità dell’ambiente e la semplificazione della sua rappresentazione grafica. E del resto, che cos’è la guerra se non una serie di azioni sanguinose, atte a riscrivere i confini di una carta geografica? Quindi, la strategia geopolitica può essere intesa, per molti versi, anche come una forma di (vacillante) rappresentazione del mondo, in cui i sogni di conquista divengono i segni – sovente parziali e malfermi – di una mutata struttura del reale. Così la distanza fra quest’ultimo e le sue incerte raffigurazioni non è altro che uno dei sintomi principali della matrice conflittuale che innesca ogni rapporto umano con il mondo. In altri termini, il controllo dell’uomo sulle cose si esprime nelle immagini/descrizioni che egli è in grado di produrne, perché, in fondo, dato che la realtà è inafferrabile, è molto meglio tentare di soggiogarla attraverso il suo simulacro grafico/iconico, o magari attraverso la parola, il logos. Sauna, anche da quest’ultimo punto di vista, risulta costruito come un meccanismo perfetto, in cui agiscono dei personaggi-oracolo, che appaiono sempre in grado di sentenziare con piena cognizione di causa sulle proprie azioni/motivazioni, sulle altrui istanze psicologico-comportamentali e soprattutto sull’ambiente che li circonda. Eppure qualcosa sfugge, i conti non tornano, la coscienza non è in grado di reggere il peso dei propri fantasmi né l’intelligenza riesce a venire a capo dei molti enigmi del reale, tramite l’esclusivo uso del pensiero o del discorso. È a partire da questa distanza, da questo iato fra linguaggio e mondo, che si innesca il disorientamento di quegli uomini, che ben presto transita dalla concretezza labirintica dell’impervia regione in cui sono persi, alla nebulosa e sfuggente sagoma della loro dimensione morale intrisa di memoria.
In questo passaggio dall’esterno fisico all’interiorità spirituale o psichica, risalta in tutta la sua dolorosa grandezza la figura di Eerik, con il suo carico di sogni sepolti dal tempo e di incubi galleggianti nel ricordo. Combattente esperto e spietato, Eerik sembra aver rintracciato il proprio compasso morale nello sterminio dell’avversario, chiunque esso sia, e ora che un nuovo ordine di pace si è sostituito alla guerra, egli appare smarrito, fuori luogo, con quei rudimentali occhiali perennemente incollati al viso, che gli addolciscono i tratti ruvidi e ne occultano in parte la fierezza, conferendogli anche una vaga e stranita aria da uomo incivilito. Si potrebbe dire che la sua vecchia identità di ex combattente trovi, in quelle primitive lenti, una specie di maschera grottesca, sebbene anche tragica. La stentata percezione visiva di Eerik, ben più utile in battaglia, quindi in uno scontro ravvicinato, anziché messa alla prova dall’esplorazione di un territorio di cui è arduo tracciare l’orizzonte, assume i connotati simbolici della sua inesausta e cieca ricerca di un nuovo significato della propria esistenza, in grado di condurlo a fare i conti una volta per tutte col proprio passato, per riuscire finalmente a scorgere un barlume di futuro dinanzi a sé.
Mentre Eerik è uomo di guerra, legato alle recenti e bellicose vicende del proprio paese, il fratello minore Knut appare il suo esatto opposto, cioè un uomo di pace proiettato verso un futuro commisurato a tale propensione: egli aspira a insegnare all’università, a lasciarsi alle spalle il bruto e ottuso orizzonte della contesa delle armi. Ogni passo che egli muove nelle vesti di soldato-esploratore è goffo, ogni tentativo di reggere il confronto col fratello guerriero è vano, mentre la delicatezza dei tratti e l’incertezza decisionale ne fanno una figura debole e dimessa.
Nonostante le abissali differenze di indole, i due risultano tuttavia accomunati da un’esperienza traumatica condivisa: a conflitto già concluso, essi vengono ospitati da un contadino, sospettato da Eerik di essere di religione ortodossa, quindi filo-russo. Eerik non esiterà a ucciderlo brutalmente, mentre Knut tenterà almeno di salvarne la figlia (Vilhelmiina Virkkunen), nascondendola in una cantina. Pur non essendo dato sapere che fine faccia la giovane, dai dialoghi fra i due fratelli si giunge a presumere che ella sia rimasta intrappolata nel rifugio-prigione in cui l’ha rinchiusa Knut, morendone di stenti. A partire da questo episodio, i cui contorni peraltro verranno rivelati più chiaramente nel prosieguo della narrazione, portando alla luce alcuni imprevedibili aspetti della personalità di Knut, la difformità fra i due fratelli si delinea come più sfumata, specie per quanto riguarda il peso del senso di colpa, che di primo acchito sembrerebbe appannaggio esclusivo di Eerik, mentre risulterà un greve fardello anche per il fratello. Per questo il viaggio assume, per entrambi, anche i decisi connotati di un cammino di espiazione. Già durante il tragitto che li condurrà, assieme alla delegazione russa, al villaggio miracolosamente ubicato nella palude dove ha sede anche la sauna del titolo, Knut percepirà la presenza della giovane donna, in guisa di allucinazione, e tenterà di condividere tale esperienza con Eerik, il quale, dal canto suo, negherà ambiguamente di riuscire a vederla. Buona parte del film si gioca sulla soglia, sul confine sottile – e dopotutto, in Sauna, molti, troppi elementi si situano in contesti liminari – che separa il bene dal male, il sacro dal profano, il presente dal passato, la percezione naturale da quella adulterata dal ricordo o dall’incubo, perciò, giocoforza, lo scioglimento, sia pure parziale, degli enigmi che inglobano i protagonisti non potrà che attuarsi in un (non)luogo sospeso oltre qualsiasi coordinata topografica, culturale, cronologica: un probabile ingresso a un’altra dimensione.
In quella sorta di limbo primordiale, di Zona, che è il villaggio nella palude, collocato al di là dello spazio e del tempo, o forse prima della loro comparsa, ogni segnale di vita risulta indefinitamente differito: gli abitanti (fra cui risalta la presenza della musa di Kaurismaki, Kati Outinen) non nascono e non muoiono più né si riproducono, forse perché semplicemente non più in vita, sagome attenuate di uomini e donne, imprigionate in un eterno soccombere senza fine; ogni parvenza di collettività e di coesistenza sociale è assente; nessuna chiesa, ortodossa o luterana che sia, ripara alla sua ombra quella comunità smarrita. Solo la grande sauna abbandonata, dall’architettura avveniristica e spoglia, sembra dotata di un’energia autonoma, di un’aura mistica e sacrale, nonché di un irresistibile potere di fascinazione, almeno per i nuovi venuti, ignari del suo potere mortifero. Lungi dal configurarsi come luogo di purificazione dell’anima attraverso quella del corpo, la sauna sembra risvegliare ancestrali e sopiti istinti negli stranieri appena giunti, istinti che contraddicono, nel bene e soprattutto nel male, il ruolo sociale e istituzionale di quegli uomini, nonché l’orizzonte morale a cui fino ad allora si erano aggrappati. Il russo Rogosin (Rain Tolk) muore per non aver saputo fronteggiare il potere di folle attrazione della sauna. Knut, attraverso la figura maieutica del fratello, scopre delle riposte e fino ad allora impensate pulsioni sessuali e lo stesso accade al giovane soldato russo Musko (Kari Ketonen), che finirà con l’ammazzare il capo spedizione russo Semenski (Viktor Klimenko), da lui amato come un padre, per poter liberarsi del proprio ruolo pubblico di militare e abbracciare definitivamente la dimensione liberatoria dell’istinto e dei sensi, per troppo tempo repressa. Infine, anche Eerik sentirà l’urgenza di abbandonare i panni di guerriero-assassino, quindi di negare il proprio ruolo istituzionale, per far fuggire dal villaggio-Zona la piccola Poika (Sonja Petäjäjärvi), l’unica giovane presente in quel luogo di decrepiti esseri allo sbando, e l’unica figura dai tratti angelici (anche in quanto apparentemente asessuata, androgina) della vicenda. Tuttavia, ancora una volta la vera natura di Eerik, che lo possiede come un demone, avrà il sopravvento.
In generale non è rilevante, quindi, essere culturalmente propensi al bene o al male, non conta riferirsi a un saldo orizzonte valoriale (non importa se di guerra o di pace), soprattutto se una forza ancestrale ci sospinge verso il baratro degli istinti nati insieme alla nostra comparsa sulla terra. Una volta entrato nella sauna assieme al fratello, Eerik potrà finalmente scrutare con chiarezza dentro di sé, senza infingimenti o illusioni: i suoi occhi gronderanno sangue, ma per la prima volta riusciranno finalmente a vedere i contorni della propria anima nera.
Annila capovolge il ruolo folclorico tradizionale, e ai confini col sacro, del rituale della sauna, rendendolo un atto di purificazione non dal male, ma dalle sovrastrutture che impediscono all’uomo di conoscere la propria essenza più intima e segreta, quella abitata dagli incombenti fantasmi dell’inconscio. Tutto il film è, peraltro, un affresco cupo, attraversato da forze fortemente simboliche – l’acqua stagnante e torbida o corrente e limpida, il fuoco ristoratore o distruttore, la foresta inglobante e labirintica, il sangue raggrumato o ruscellante – e dai demoni che assediano l’animo, in uno scambio continuo fra ambiente e interiorità, fra indifferenza della natura e ferina brutalità dell’uomo, la cui identità lacerata non potrà far altro che annaspare alla ricerca di un senso che nella migliore delle ipotesi rimarrà precluso, nella peggiore si mostrerà in tutta la sua annichilente violenza.