Scoprire il Dong Film Fest / Intervista a Zelia Zbogar e Alessandro Amato

Si è tenuto a Torino il primo festival italiano dedicato al cinema cinese indipendente. Ne abbiamo parlato assieme alla direzione artistica.

Mai come oggi, i festival nascono e sopravvivono come scommesse. Scommesse sul pubblico e sulla sua curiosità verso nuove proposte e nuovi sguardi. Scommesse critiche e di ricerca. Scommesse sul territorio, da innervare con manifestazioni culturali che sono soprattutto reti di relazioni tra organizzatori, spettatori, artisti e professionisti della filiera del cinema.

Il Dong Film Fest è tutte queste cose. Dong è un festival di cinema dedicato alla Cina e al suo cinema indipendente, giovane e radicale. Si tratta di una scommessa particolarmente coraggiosa: è il tentativo di gettare un ponte tra culture e di confrontarsi con un cinema che, per pigrizia intellettuale, consideriamo lontano ed esotico. Non è così: questi film parlano di vita e giovinezza, di politica e di famiglia, delle nostre domande e delle nostre città globali. Sono luoghi di dialogo e di rispecchiamento, non oscuri oggetti estetici da "rispettare a debita distanza". Questo festival è un’occasione preziosa per aprire lo sguardo e dialogare su un cinema sorprendente e praticamente introvabile sui nostri schermi. Cinema da guardare e che ci riguarda.

Il Dong Film Fest ha portato il cinema cinese indipendente nel centro storico di Torino, presso il cinema Massimo, con un evento organizzato dal 4 al 6 novembre e al cui interno abbiamo potuto trovare un concorso lungometraggi, proiezioni di cortometraggi e incontri sul cinema cinese. Ad uscire vincitori sono stati il lungometraggio The Night di Zhou Hao ed il corto Old Road di Li Yongshuai.

Dong è il frutto del lavoro dell’omonima associazione culturale diretta da Zelia Zbogar, Gianluca Vitale e Veronica Uva, ed è stato realizzato col supporto della onlus Eri (European Research Institute), dell’associazione culturale Angi e della cooperativa culturale Kalatà.

Per saperne di più, Point Blank ha intervistato Zelia Zbogar, direttrice artistica del Dong Film Fest, e Alessandro Amato, collaboratore artistico del festival che ne ha accompagnato la nascita e lo sviluppo fin delle origini.

Come è nata l’idea del Dong Film Fest?

Zelia Zbogar: L’idea del DFF è nata circa 5 anni fa a Dalian, in Cina. Frequentavo un semestre di lingua cinese alla Lianing Normal University e insieme ad alcuni compagni di corso abbiamo organizzato un cineforum casalingo a pochi passi dallo Casa dello Studente dell’università. Questa piccola iniziativa mi ha messo in contatto con la scena cinematografica indipendente e con la vitalità e la curiosità dei miei coetanei cinesi. A distanza di anni, l’occasione all’origine del DFF è stata la scrittura di un cortometraggio, Io sono Filippo, redatto a 8 mani da me, Gianluca Vitale (Dong), Chen Ming (ANGI, Associazione Nuova Generazione Italo Cinese) e Federico Floris (ERI). Questo progetto, basato sull’esperienza dei cinesi di seconda generazione cresciuti in Italia, ma educati in Cina, è rimasto in sospeso, ma ci ha spinti a cercare una strada alternativa per raccontare la vita dei giovani cinesi.

Organizzare un festival da zero è un’impresa a dir poco complessa. Avete esperienza festivaliera pregressa? Quali sono state le principali difficoltà che avete incontrato?

ZZ: L’esperienza che mi ha formata non è festivaliera. Dal 2014 collaboro con il Cinema Beltrade di Milano, una realtà unica e in divenire. Il Beltrade mi ha permesso di capire come funziona la Sala, dalla cabina di proiezione allo sbigliettamento, dall’incontro tra regista e pubblico alla gestione dei social, dalla programmazione alla condivisione del film. Per il DFF, la difficoltà maggiore è stata di natura logistica. La distanza tra Cina e Italia, sia geografica che online, ha reso complesse comunicazioni e scambi di materiali.

Alessandro Amato: Per quanto mi riguarda, l’esperienza festivaliera è stata sempre quella di spettatore, anche professionista. Negli ultimi sei anni ho avuto modo di seguire diverse realtà e di raccontarle su testate web e cartacee. Parlando con gli organizzatori di quegli eventi mi sono fatto un’idea piuttosto chiara delle problematiche del settore e così alla prima occasione ho accettato la sfida e mi sono messo in gioco. Inoltre, dal 2014 gestisco una rassegna di cortometraggi nel milanese che mi permette di avere un contatto costante sia con giovani autori sia con il pubblico.

Come avete selezionato i film che hanno partecipato al festival?

ZZ: Abbiamo dato un taglio molto netto ai contenuti del DFF. I film in concorso sono tutti opere prime di finzione realizzate da registi e produzioni indipendenti. Per selezionarli abbiamo guardato al circuito dei festival internazionali e ai cataloghi delle case di produzione della sola Cina continentale, né di Hong Kong né di Taiwan.

AA: Il mio contributo è stato di consiglio, di riflessione, su contenuti e modalità del cinema che ci interessava accogliere in concorso. Abbiamo cercato da subito opere che raccontassero la provincia cinese, in tutte le declinazioni che questo concetto può trovare sullo schermo. Dalla campagna alle periferie della metropoli, da Hong Kong come nuova frontiera del continente alla strada vista come ponte che connette questi mondi. Inoltre, abbiamo dovuto fare i conti col legame fra cinema d’autore e cinema di genere, che in Asia non è così inusuale come nel panorama Occidentale. Non è stato un lavoro facile, ma possiamo dirci molto soddisfatti del risultato finale.

Capita, talvolta, di trovare documentari od opere di finzione cinesi che possiamo considerare indipendenti all’interno dei festival italiani, dal Torino Film Festival ai festival di ricerca di città come Milano. L’impressione, tuttavia, è che l’attenzione sia discontinua, poco organica. Credete sia un problema di qualità delle opere, di reperibilità o che altro?

AA: Probabilmente il problema sta nella volubilità dei festival stessi, nell’entusiasmo a volte un po’ ingenuo con cui avvicinano una cinematografia "nuova" per poi abbandonarla quando si crede che il pubblico se ne sia stancato o che un paio di convegni ne abbiamo esaurito la narrazione. In più, c’è da considerare il disinteresse del comparto distributivo nostrano, il quale non fa nulla per assecondare la volontà innovatrice di molti eventi e continua invece a proporre i soliti prodotti, le destinazioni sicure. Per certi versi, li comprendiamo: si tratta di un’industria... e le industrie devono farsi i conti in tasca prima di cambiare le politiche. Il discorso non può esaurirsi in questa sede.

Torino è solo la prima tappa di un percorso di andata e ritorno tra la Cina e l’Italia. Parlateci della "fase due", dell’edizione cinese di Dong che si terrà l’anno prossimo.

ZZ: Il DFF vuole essere un festival con una doppia edizione annuale. Vogliamo portare in Italia il cinema cinese e in Cina il cinema italiano. Il nostro partner di progetto è la Communication University of Shanxi (CUSX) di Taiyuan, la facoltà di cinema che ha co-prodotto Kaili Blues, Premio per il miglior regista emergente a Locarno 2015. Nella primavera del 2017 realizzeremo la prima edizione cinese del festival che si svolgerà all’interno del campus universitario e presenterà una selezione di titoli italiani indipendenti, sia di finzione che di documentario, e sarà accompagnata da una serie di masterclass. Stiamo lavorando anche con l’Istituto Italiano di Cultura di Shanghai per portare questa selezione italiana in una sala pubblica della città.

Cosa sta succedendo al cinema indipendente in Cina? A giudicare da quanto è successo negli ultimi tre anni (mi riferisco, in particolare, alla chiusura di tutti i principali festival di cinema indipendente/underground a Beijing, Shanghai, Nanjing e Kunming), la situazione non è molto favorevole per le opere prive del visto di censura. La circolazione di queste opere è sempre stata sotterranea, naturalmente, ma la soglia di tolleranza sembra essersi abbassata...

ZZ: In Cina, le sorti del cinema indipendente sono legate a doppio filo con quelle del cinema mainstream. I Piani quinquennali per lo sviluppo economico e sociale 2011 e 2016 esortano a investire nel cinema come mezzo per aumentare i consumi interni del Paese e per diffondere "valori e contenuti positivi". Negli ultimi anni l’attenzione del governo sul settore è quindi notevolmente aumentata e la sottocultura cinematografica, sempre più fiorente, ne ha pagato le ovvie conseguenze. In ogni caso, nel mio ultimo viaggio in Cina, a Shanghai e alla CUSX di Taiyuan, ho avuto la conferma che sia il pubblico che le nuove leve del cinema cinese non mancano di criticità e di interesse per la sperimentazione, nonostante la soglia di tolleranza verso le opere indipendenti si sia abbassata.

A cosa servono oggi i festival cinematografici? Ce lo chiediamo in tanti, e ognuno ha una risposta diversa. Dato che il vostro è un festival molto particolare, credo sia interessante sapere qual è il vostro punto di vista.

AA: In senso ampio e ideale, un festival dovrebbe servire a creare un contatto fra un pubblico spinto da curiosità e il mondo professionale e artistico che ne orienta gli interessi. Dovrebbe essere luogo d’incontro. E spesso lo è, quando non diventa semplice vetrina per gli sponsor... Nel caso specifico del Dong, vorremmo che fosse l’occasione per andare oltre gli stereotipi e il pregiudizio. Vorremmo che spingesse gli italiani a guardare il cinema cinese come fosse anche un po’ suo. Insomma, vorremmo che la doppia edizione annuale fosse un vero e proprio ponte fra le due culture.

Per approfondire la conoscenza del Dong, vi rimandiamo al sito del festival: http://dongfilmfest.com/

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 08/11/2016

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