To the Son of Man Who Ate the Scroll / Fondazione Prada
Il giorno seguente non morì nessuno. La nostra estinzione in mostra
È difficile raccontare To the Son of Man Who Ate the Scroll senza parlare della scatola magica in cui si trova. Fondazione Prada è un luogo dalla bellezza perfetta, e questo a volte rischia di essere un punto a svantaggio delle mostre che ospita: è come se, completamente altra, sapesse di bastare a sé stessa. Ho sempre creduto che, completamente vuota, avrebbe continuato a stupirmi. Poi arriva Goshka Macuga, nata a Varsavia e formata a Londra, e io devo cambiare sguardo: To the Son of Man Who Ate the Scroll non potrebbe esistere se non lì. E d’ora in avanti faticherò ad immaginarmi Fondazione Prada con occhi diversi. Non penso si possa descrivere la mostra in modo unitario senza correre il rischio di snaturarla: è un coagulo, un grumo di riflessioni che grumo deve restare. Provo a partire allora dalla metà, da quello che io ho percepito come suo centro ideale, il lungo titolo dell’opera di Marzia Migliora, La morte tornò a letto, si abbracciò all’uomo e, senza ben capire quel che le stava succedendo, lei, che non dormiva mai, sentì che il sonno le faceva calare dolcemente le palpebre. Il giorno seguente non morì nessuno. Due scheletri in ceramica, abbracciati. Come i due amanti di Valdaro, ma di un bianco ottico accecante, immersi in una luce quasi al neon che ci toglie anche la consolazione pietosa del tempo e della polvere. Modelli anatomici stretti in un’intimità distante, che guardiamo con la stessa riverenza da entomologo riservata a una specie estinta, imbalsamata. Quello che c’era e non c’è più, congelato in un’eternità immobile e consegnato ad una teca. Eppure quella è la nostra intimità nella sua forma più naturale e semplice, una posizione che ognuno di noi conosce fin troppo bene; in questo abbraccio morto tra morti l’unica certezza è che nessuno davvero morirà. Più che un conforto, è una minaccia.
Siamo al primo piano del Podium. E i due scheletri sono solo una delle tante meraviglie esposte su cinque tavoli di diversi colori, coperti da rotoli di carta disegnati a biro e realizzati da Goshka Macuga, in collaborazione con Patrick Tresset, sfruttando il sistema Paul-n, robot che è possibile vedere in azione in mostra. E lungo questi tavoli, un po’ da lavoro, un po’ da sala operatoria, la corsa dell’uomo verso la sua estinzione: un vaso del VII secolo d.C della civiltà moche, punte di freccia, Abstrakter Kopf di Oskar Schlemmer, la serie degli Archeologi di Giorgio de Chirico, una pagina di Walter Benjamin, la Linea n.9 di Piero Manzoni (e in questa scelta ci ho visto tutta l’aggraziata ironia polacca, ma qui potrebbe essere il cuore a parlare. Alla fine, però, Paul-n non è forse l’evoluzione tecnica del congegno inventato proprio da Manzoni per le sue Linee?), John Heartfield e George Grosz fotografati nel 1920. E in mezzo, spicca ciò che resta del vitello d’oro: uno scheletro deforme, a due teste, False God di Sherrie Levine. Pezzi eterogenei e mai così fuori contesto, ma che non potrebbero trovarsi altro che qui. Una wunderkammer della fine, senza barriere e con pochissime teche; solo una strana sensazione di deferenza ci ferma dall’avvicinarci troppo a questo museo di noi stessi. Questo primo livello si chiude con una domanda, questa sigillata sì in una teca, la sua atmosfera sottovuoto. Il neon di Macuga si chiede, e ci fa chiedere, “What was I?”, e ogni possibile risposta, sia anche solo il silenzio, cade nel vuoto di una scala di cui non vediamo la fine. La mostra prosegue per altri due spazi, la Cisterna e lo Studiolo. La prima ospita alcune configurazioni di International Institute of Intellectual Co-operation di Goshka Macuga, ritratti celebri montati su tubi in bronzo a ricreare gigantesche strutture chimiche. Il primo impatto è quasi cimiteriale, e le pareti completamente grigie e spoglie della Cisterna non fanno che accentuarlo, eppure la sensazione di trovarsi in un sacrario lascia presto il posto ad una vera e propria caccia al riconoscimento: Noam Chomsky e Ray Bradbury, Aby Warburg e Giordano Bruno, HP Lovecraft e Francis Bacon, Slavoj Žižek e le Pussy Riot, tutti legati da un unico filo di bronzo. Lo Studiolo, invece, è stato riallestito in occasione della mostra per ospitare, ogni sabato e domenica alle 17, una performance in esperanto tenuta da Valeria Sara Constantin.
E alla fine, torno all’inizio, al piano terra del Podium, dove il tempo si è fermato. A ricordarcelo c’è il gong, immobile, di Eliseo Mattiacci. Colpo di gong, è il nome dell’opera, ma non c’è nessun rintocco. L’estrema modernità delle forme e dell’architettura si fonde con il mistero di costruzioni ieratiche, primitive, o forse aliene. La Natura di Lucio Fontana, il Cubo di Giacometti, la sfera in bronzo dorato di James Lee Byars ci fanno sentire estranei, intrusi, in un mondo che non è nostro. Qui siamo del tutto irrilevanti. E in nostro aiuto può intervenire solo un androide. L’androide, opera di Macuga e fabbricato in Giappone con le fattezze del suo fidanzato: è lui a dare il titolo all’intera mostra. Ivan Carozzi, nel suo pezzo per Il Post, l’ha descritto in un modo che non richiede molte altre parole: “avverto davvero il fantasma dell’umano”. Io mi accodo: quello sguardo cieco, eppure così vivo, mi imbarazza e lusinga. E voglio credere anche io, come Carozzi, che quello spolverino di plastica trasparente sia un omaggio a Blade Runner. L’androide parla, e parecchio: quaranta minuti di discorso che però non danno mai l’idea di potersene andare, con la scusa del “ho colto il messaggio, ho capito il punto” (in caso contrario, potrete comunque recuperare una copia del discorso in biglietteria). Non aggiungerò altro, dirò solo che quell’androide mi ha suscitato la tenerezza di un ricordo che non immaginavo di trovare. E che, per una volta, mi ha fatto ringraziare la miopia: tolti gli occhiali, è rimasta un’immagine sì offuscata, ma di uomo. Il movimento meccanico è diventato il gesticolare impacciato e nervoso di chi sta parlando a lungo di cose difficili. I lievi scatti di quella testa senza vita, lo sguardo di chi, circondato da tante persone, cerca di guardare tutti e al tempo stesso nessuno. Il ricordo di un paradossale, rassicurante, senso di umanità.