The Strangers
L'esordio alla regia di Bryan Bertino è un horror che riflette sul filone della home invasion e ne cerca di superare i canoni attraverso un'ottica d'autore.
A guardar bene, ci si accorgerà di come l’home invasion (un film in cui una casa viene occupata da rapinatori o omicidi che mettono in pericolo la vita degli abitanti protagonisti) sia uno dei filoni cinematografici di maggior successo tra i blockbuster degli ultimi quindici anni. Partendo dal 2002, anno di uscita di Panic Room di David Fincher (un film che ha segnato l’immaginario collettivo cinematografico dei primi Duemila), i titoli da enumerare sarebbero potenzialmente infiniti: You’re Next di Adam Wingard, Assediati in casa di David Tennant, Knock Knock di Eli Roth, Ossessione omicida di Sam Miller, i remake de L’ultima casa a sinistra da parte di Dennis Iliadis e di Cane di pagliashot by shot di Michael Haneke con il suo Funny Games sono solo alcuni dei film citabili. Alla luce di questo mare magnum di film più o meno riusciti sarà lecito chiedersi cosa potrebbe mai differenziare The Strangers da uno qualsiasi degli altri titoli.
Il regista Bryan Bertino, pur rifuggendo le velleità autoriali dei due cineasti sembra aver imparato una lezione molto importante dal film di Fincher e da quello di Haneke: girando in uno spazio circoscritto come quello di una casa o di una stanza, la questione ritmica assume un valore ancor più centrale. Non potendo cadenzare un film dal punto di vista spaziale, per contravvenire all’obbligato ripetersi di luoghi e situazioni è necessario lavorare su due aspetti precisi: la gestualità degli attori e le lunghe pause silenziose.
I momenti migliori del film sono infatti ascrivibili a tutte quelle situazioni in cui “gli stranieri” — tre persone mascherate che invadono la casa di una coppia in crisi per torturare e uccidere — si mostrano alla telecamera come presenze fantasmatiche e impalpabili, relegate sullo sfondo dello schermo come ombre o oggetti del decòr, rivelati solo da piani sequenza lenti e protratti nel tempo, accompagnati dall’assenza di rumori e di colonna sonora, e così capaci di generare una tensione genuina che non si risolve (non sempre) nell’ormai stucchevole pratica del jump scare.
Gli stranieri attendono, tastano il perimetro della casa, scrutano la coppia da lontano: come Paul e Peter di Funny Games sembrano pregustare l’omicidio, la tortura in divenire. Vengono ripresi in diverse situazioni di stasi e in numerosi atti di mimesi, con le braccia lungo i fianchi appoggiati al muro, nascosti dietro a una tenda, celati all’interno di una macchina.
Ma silenzio e stasi non sono prerogative dei soli assassini e non sono dimensioni relegate esclusivamente alla narrazione; si compenetrano anche nelle scelte di recitazione, nell’uso che Live Tyler (Kristen) e Scott Speedman (James) fanno del proprio corpo e della propria voce.
La ragazza cammina in punta dei piedi, il suo viso monoespressivo sembra il perno rotatorio attorno a cui girano gli altri personaggi (gli invasori, il fidanzato), le movenze sono compassate, lente, timorose. La sua voce, sussurrata, smozzicata, sporca, strascicata, fatta di singulti e sussurri. Sembra quasi di poter scorgere la saliva che le impasta la bocca e la fatica che le costa parlare, anche solo per chiedere aiuto al fidanzato di cui ha appena rifiutato la proposta di matrimonio.
Le fa eco Speedman, bradicardico, riflessivo, statico. Incapace di fronteggiare la minaccia. Anch’egli silenzioso, reticente, passivo-aggressivo, ingessato nel suo vestito elegante. Non gesticola, non si tocca il volto, non si sfiora i capelli.
Il quid di The Strangers risiede insomma nella capacità di attendere, nella sua compostezza.
A differenza dei suoi gemelli, il film di Bertino non necessita di ritmi serrati o di una colonna sonora incalzante, anzi, ritorna alle radici che legano storicamente immagine e suono nel cinema horror attraverso l’accentuazione dei suoni diegetici (parole, rumori, fruscii) e riducendo all’essenziale la musica extradiegetica, ben dosata anche quando presente.
Certo, l’horror è un genere che fa dell’accostamento o del distanziamento dai suoi cliché (e quindi del rimando ad altri film) una cifra stilistica essenziale, e sono proprio questi cliché a fare di The Strangers un horror ottimo in potenza ma riuscito solo parzialmente. Nello strenuo tentativo di discostarsi dai mood dell’horror contemporaneo il film soffre della sua incapacità di diventare un prodotto d’autore, restando cinema ibrido e incompleto. Se le scelte di fotografia (toni caldi, zone chiaroscurali, forti contrasti) creano una precisa discontinuità con i colori al neon saturi e molto freddi di, per esempio, The Neon Demon, It Follows, Il giorno del giudizio, e risultano una scelta vincente per l’atmosfera lugubre che anima le zone d’ombra della casa, la violenza solo accennata (e che sarebbe stata propedeutica per instaurare un legame empatico tra lo spettatore e i personaggi), la metafora posticcia e mal abbozzata dei tre killer (che, ipoteticamente, dovrebbero comporre un nucleo famigliare) che torturano la coppia nel momento di maggiore crisi, nonché l’estetica di maschere ammiccanti a Profondo rosso e The Orphanage (ormai iper-abusate), inseriscono forzatamente The Strangers in quel filone da cui vorrebbe ma non riesce a sganciarsi, mancando della sensibilità estetica ed erotica necessaria a farlo.