The Bride
Da uno dei registi più rappresentativi della – ad oggi scarna – produzione horror russa, una ghost story risaputa, ma non priva di suggestioni tematiche e tenuta narrativa.
Non si può certo affermare che la terra di Russia sia mai stata prodiga di racconti filmici horror, specie a causa degli orientamenti politico-ideologici del realismo socialista, che rigettavano la sfera dell’irrazionale e le sue derive, evidentemente individualiste, legate all’interiorità dell’uomo anziché alla sua collocazione nella dimensione della polis come portatore di istanze collettive. Tuttavia, fanno capolino talora elementi perlomeno fantastici nella produzione cinematografica sovietica, già a partire dagli anni Trenta. A tal proposito, non vanno dimenticati esempi assai intriganti, costituiti dai lavori di registi come Aleksandr Ptuško o Lev Atamanov, o da – rari – film con vaghe venature di macabro come The Drowned Maiden (Aleksandr Rou, 1952) o Viy (Georgij Kropačëv e Konstantin Eršov, 1967).
Questa generale idiosincrasia per il cinema del brivido, apparentemente sedimentata ancora oggi in Russia, almeno a livello produttivo se non spettatoriale, risulta talora incrinata dallo sforzo di recuperare terreno, rispetto a paesi come USA, Giappone, Francia, con tentativi più o meno timidi di varcare la soglia dell’incubo e di immergervisi finalmente a occhi spalancati. Sicuramente, uno dei nomi più interessanti in questo – al momento ancora relativamente spoglio – orizzonte è quello del moscovita Svyatoslav Podgayevskiy, con all’attivo già due lungometraggi horror prima di The Bride. Con quest’ultimo titolo, Podgayevskiy attinge a suggestioni folcloriche slave legate alla condizione della figura femminile in procinto di contrarre matrimonio, ibridate con le inquietanti dinamiche che presiedono alla pratica della fotografia post mortem.
Diffusasi qualche tempo dopo la nascita della dagherrotipia e conclusasi verso gli anni Quaranta del secolo scorso, con un indubbio sostrato latente magico-apotropaico, tale pratica prevedeva la raffigurazione visiva di un defunto – da solo o circondato dai congiunti – come se fosse ancora vivo. Le implicazioni teoriche di tale usanza risultano di certo palesi, innanzitutto tenendo presenti le notevoli riflessioni baziniane sulle arti plastiche e la fotografia, in quanto pratiche connesse alla necessità dell’uomo di “avere ragione del tempo attraverso la perennità della forma”; in secondo luogo non va trascurata l’idea, diffusa presso alcune culture, che la fotografia non catturi solo l’immagine bensì anche l’anima del soggetto inquadrato. Tuttavia, Podgayevskiy fa uso di queste intriganti possibilità meta-riflessive e credenze quasi esclusivamente come innesco narrativo di una ghost story senz'altro d’atmosfera, ma che nondimeno avrebbe potuto giovarsi di una maggiore articolazione significante. D’altro canto il regista risulta assai abile nello sviluppare l’altro snodo narrativo cruciale, quello di matrice folclorico-tradizionale legato a quella sorta di limbo in cui risiederebbe la sposa promessa (laddove la dimensione della promessa non si coagula soltanto intorno al suo valore assertivo o predittivo, bensì si sostanzia di un valore performativo): non più compiutamente nubile e, malgrado ciò, neppure giuridicamente maritata, e per ciò stesso potenziale preda di spiriti malvagi.
La vicenda di The Bride prende le mosse da un antefatto lontano nel tempo: nella Russia della metà dell’Ottocento un uomo, abile dagherrotipista, tenta di preservare l’anima della moglie defunta, conservandone l’immagine nel negativo su lastra, affinché ella possa reincarnarsi nel corpo di una ragazza, seppellita viva assieme alla donna. Ai giorni nostri, la giovanissima Nastya (Viktoriya Agalakova) si sposa col fotografo Vanya (Vyacheslav Chepurchenko); tradizione vuole, però, che ella trascorra un periodo presso i parenti del marito, al fine di essere accolta come nuovo membro della famiglia a tutti gli effetti. Ciò implica che il matrimonio, per considerarsi effettivo, debba venire sancito da una sorta di rito familistico-tribale. Naturalmente, Vanya è un discendente del dagherrotipista dell’antefatto, e inoltre nella magione avita è ancora conservato il negativo dell’immagine della defunta moglie di quest’ultimo; conseguentemente, la matassa si imbroglia.
Podgayevskiy focalizza la propria attenzione sulla giovane protagonista e sul suo rapporto col nuovo (ma ancestrale) mondo rurale e isolato in cui è costretta a stabilirsi per seguire il consorte, un microcosmo di cui sono custodi due donne: la sorella di Vanya, Liza (Aleksandra Rebenok), e l’anziana dottoressa Aglaya (Natalia Grinshpun). Come in ogni storia di fantasmi che si rispetti, non mancano un’incombente presenza maligna e una tetra dimora carica di mistero e di spazi labirintici. Il duello fra colpa atavica e innocenza, fra tradizione e ansia di libertà, fra oscuri residui di un passato incancellabile e vitalità dirompente si sviluppa quasi esclusivamente fra figure femminili, mentre il baricentro del racconto si regge sulle fragili – anche se inaspettatamente resistenti – spalle della protagonista, attraverso i cui occhi si snoda la progressione del racconto e il flusso di informazioni per lo spettatore.
Nonostante il rischio di cadere nello stereotipo ad ogni passo, Podgayevskiy tratteggia una vicenda in cui il senso onnipresente di déjà vu non è il limite bensì la chiave per oltrepassarlo, per decifrare il modo in cui un bagaglio di elementi narrativi consolidati si trasfigura se osservato con occhi nuovi. Ecco allora che l’atmosfera di complotto alla Polanski, le temporalità e gli spazi labirintici alla Bava o, ancora una volta, alla Polanski, o magari alla Tarkovskij, accanto a trovate visive e registiche peculiari dell’horror di oggi, trovano nelle immagini di The Bride una sorta di sintesi che è solo concettualmente postmoderna, ma che (quasi) mai scade nel gioco citazionistico fine a se stesso o nella ripetizione di stilemi e temi consunti. Il film risulta infatti marcato da una organica unità interna, a cui concorrono tutti gli elementi che lo compongono: ambientali, narrativi, atmosferici, attoriali, luministici, persino linguistici. Podgayevskiy riesce a non perdere di vista l’insieme e a centrare quello che probabilmente è l’obiettivo primario di un film horror, di ieri come di oggi: inquietare con le immagini, senza che queste costituiscano soltanto un pretesto, un espediente.