Lake Bodom

di Taneli Mustonen

Dalla Finlandia, un horror che sovverte dall’interno gli stereotipi dello slasher, fra suggestioni nordiche, ombre del passato e rimandi teorici.

Lake bodom - recensione film mustonen

Durante le prime ore della notte del 5 giugno 1960 (domenica di Pentecoste, per chi voglia scorgere esoteriche simbologie), sulle rive del lago Bodom nel sud della Finlandia, ebbe luogo uno dei fatti di cronaca nera più noti e controversi che la “terra dei mille laghi” ricordi. Un gruppo di quattro giovanissimi campeggiatori (due ragazze quindicenni, due maschi diciottenni) venne aggredito da un assassino che non fu mai scoperto, dando così adito a molteplici congetture e filoni di indagine: le due ragazze e uno dei due ragazzi furono pugnalati e percossi a morte, mentre l’altro sopravvisse, per poi venire accusato, ben 44 anni dopo l’evento, di essere l’omicida, anche se l’ulteriore e tardiva indagine non condusse a svelare alcuna definitiva verità.

L’alone di mistero che tuttora aleggia sull’avvenimento funge da innesco di Lake Bodom, terzo lungometraggio del finlandese Taneli Mustonen e sua prima incursione nei territori dell’horror. Il regista, ideatore anche della sceneggiatura assieme al sodale Aleksi Hyvärinen, sceglie di riallacciarsi alla vicenda realmente accaduta creandone un’immagine speculare, eppure distorta e deforme, tramite l'istituzione di un dialogo (intermittente, e proprio per questo fecondo per la narrazione) fra presente e passato, non tanto per riattualizzare quest'ultimo, quanto per restituirne gli aspetti problematici e irrisolti.

Finlandia, giorni nostri: due ragazze, Ida (Nelly Hirst-Gee) e Nora (Mimosa Willamo), e due ragazzi, Atte (Santeri Helinheimo Mäntylä) ed Elias (Mikael Gabriel), tutti provenienti dal medesimo istituto scolastico, si apprestano a trascorrere una nottata di tarda primavera presso le rive del lago Bodom. Solo Atte si dichiara interessato a ricreare/simulare la macabra mattanza del Bodom, improvvisandosi come indagatore fuori tempo (e fuori luogo, verrebbe da aggiungere), mentre gli altri tre giovani paiono più propensi alle schermaglie tipiche della tarda adolescenza, scandite da ineludibili richiami ormonali, gelosie reciproche, desideri di fuga dalla propria condizione di semi-adulti con scarso potere decisionale. Intanto, nella boscaglia circostante pare aggirarsi una presenza furtiva.

Le premesse per uno slasher di routine sembrano esserci tutte, eppure, ogni volta che il racconto dà l’idea di avere imboccato un sentiero noto o aver preso una piega prevedibile, ecco il twist che non solo spiazza, ma che è in grado anche di mutare radicalmente l’orizzonte complessivo del senso. La protasi da slasher potenziale inizia infatti a cedere, all’imbocco della seconda parte del film, sotto i colpi incalzanti di un giallo ribaltato (i cui archetipi sono da individuarsi in Nodo alla gola o in Frenesia del delitto), in cui sono noti gli assassini e la sorpresa del whodunit lascia spazio alla suspense dell’esecuzione del piano criminoso, del “delitto perfetto”, in quanto senza movente, pertanto architettato come somma dimostrazione di potere e di controllo sul reale. Anche questo schema viene però a sfumare, facendo emergere un’istanza emotiva, la brama di vendetta, anch’essa tuttavia incastonata all’interno di un progetto affatto diverso, vivificato dalla gelosia e reso operativo tramite la menzogna: evidente cortocircuito fra spinte istintuali e diabolica pianificazione. Un ulteriore e conclusivo ribaltamento ricondurrà infine, circolarmente, il tracciato narrativo a riallacciarsi alle avvisaglie slasher dell’inizio, in apparenza ormai relegate fuori dal quadro: entra infatti in scena un misterioso killer solitario proveniente dalla selva e, forse, dal passato.

Mustonen colloca al centro della propria composita matrioska narrativa le due figure femminili, dapprima apparentemente passive nei confronti della – quanto mai timida peraltro – controparte maschile, per poi divenirne inaspettatamente carnefici: annichilimento, anche simbolico, del maschile tout court. La passione che lega Ida e Nora, potente, soverchiante, distruttiva, e nondimeno mai del tutto simmetrica (Nora ama Ida e ne dirige gesti, comportamenti e reazioni; Ida non la ricambia e malgrado ciò ne è succuba, date le proprie insicurezze e fragilità, anche relative alla propria identità sessuale), è il vero motore di ogni inganno e mortale aggressione ai danni dei malcapitati Atte ed Elias. La comparsa del killer silvestre, tuttavia, spariglia ulteriormente le carte e dissemina ulteriore inquietudine, specie in relazione alla vicenda storica che lega la finzione filmica alla realtà.

Mustonen non si ferma neppure di fronte allo sviluppo di una trama complessa e alla psicologia sfaccettata e instabile dei personaggi, ma è in grado di regalare anche un secondo livello di significazione al suo film, a partire dal pretesto narrativo che muove gli eventi. Nora, sospettando un’attrazione di Ida nei confronti di Elias, decide di diffondere la voce che il ragazzo abbia fotografato Ida, a insaputa di quest’ultima, in pose sconvenienti. In realtà le foto non sono mai state scattate, eppure tutti, nella città, a scuola e soprattutto nella famiglia tradizionalista e bigotta di Ida, credono nella loro esistenza, pur non avendole mai viste. La ragazza diviene quindi lo zimbello della comunità. Questo secondo livello di significazione, che sconfina tutt’altro che in subordine in una dimensione meta-testuale e teorica, oltre a non appesantire la vicenda, la carica di ulteriore tensione e ambiguità, arrivando sostanzialmente a rilevare come la società dell’immagine sia talmente soverchiata dal visivo, e in sua balia, da credere in esso anche qualora esso non esista. Parola, immagine e credenza in esse ai limiti dell’idolatria arrivano quindi a costituire una sorta di beffarda allegoria del presente, tanto più se questo è legato a un passato (le sanguinose vicende del lago Bodom) arduo da decifrare e altrettanto colmo di false piste e verità sepolte.

In ultima istanza, il cinema, dal canto suo, non può far altro che continuare a giocare, come sempre ha fatto, con l’ambiguità del reale e col raddoppiamento di tale ambiguità in quel secondo mondo che è quello iconico. Peraltro, si tratta di un gioco che Mustonen dimostra di conoscere bene, mettendogli a disposizione ogni elemento possibile della messa in scena: il dosaggio sapiente dei ritmi del narrato e delle sue imprevedibili svolte; l’efficace valorizzazione dell’ambientazione selvaggia con le sue zone d’ombra e i suoi misteri latenti, ottenuta lavorando con abilità sull’illuminazione del set, tramite l’utilizzo frequente, nelle molte sequenze notturne (da applausi quella subacquea), della luce in funzione antinaturalistica ed espressiva; e infine i due ritratti femminili, sfaccettati e inafferrabili, col notevole contributo, in questo caso, delle due magnifiche interpreti. Là dove l’ipertrofica produzione anglofona spesso arranca e ripete se stessa, ecco un ammirevole esempio di horror nordeuropeo che, senza creare il nuovo tout court, rielabora con sagacia l’esistente portandolo a nuova vita.

Autore: Gian Giacomo Petrone
Pubblicato il 30/05/2019
Estonia, Finlandia, Nuova Zelanda 2016
Durata: 85 minuti

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