Speciale MUBI / Lasciami entrare
Lasciar entrare l’amore, ma anche il sangue e la violenza, l’ossessione per le immagini e il loro mutare.
[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].
Lasciami entrare è un film d’amore e come ogni (film d’) amore chiama il sangue, il sogno, la violenza e l’eternità, un ciclo di repliche (del gesto e della sua bellezza), non soltanto perché ogni storia d’amore è una storia che si ripete fantasmaticamente: nel caso specifico di questo splendido film (che ha dodici anni ma non è invecchiato di un giorno, proprio come la sua protagonista…) diretto da Tomas Alfredson, a ogni rewatch è lecita la vertigine di specchiare, nel volto prescelto di Oskar, e in quello butterato e autoimmolatosi di Håkan, la stessa persona, il medesimo ritornante destino. «L’orrore era per l’amore» avrebbe sentenziato la deltoriana Lucille/Jessica Chastain in Crimson Peak. «Un amore mostruoso che ci rende tutti mostri».
Oskar e Håkan (entrambi biondi, tristi, silenziosi) non s’incontrano mai, potrebbero essere l’uno la proiezione dell’altro, passata e futura, [onni]presente perché, dal momento in cui s’innamorano di Eli, non avranno altra vita all’infuori di lei. Ma Oskar e Håkan potrebbero essere anche tutti coloro che sono venuti prima, e tutti coloro che sono venuti dopo, se il pattern seduttivo (inevitabile, per la propria sopravvivenza) di Eli è sempre quello che vediamo attivarsi e poi dipanarsi millimetrico, dall’inizio fino alla fine del film. E se è sempre vero che, come sospirava Junie/Léa Seydoux nel capolavoro di Honoré La belle personne, «non conosci mai davvero chi ami», ogni visione/ritorno a Lasciami entrare, come ogni visione/ritorno d’amore e all’amore, è un movimento viziato dall’ambiguità, dall’inherent vice di un sentimento maledetto come la costrizione all’immortalità, alla bestialità dei succhiasangue. Mi succede ogni volta che ripercorro le immagini di questo mélo horror (esiste connubio più fascinatorio, al cinema, nella narrazione per immagini?). Mi chiedo se la ritrosia di Eli (che «non è una ragazza», né un ragazzo: più un simbolo, una sembianza), i suoi tentativi auto-umanizzanti (la caramella), il suo pericolare arditamente (l’ingresso in casa di Oskar, su insistenza di lui, senza permesso verbale esplicito), il suo abbandono e poi il suo ritorno provvidenziale con salvataggio in extremis del fanciullo con fuga d’amore annessa, non siano parte di un’affinata strategia manipolatoria, di un’arte autoconservativa suo malgrado limata alla perfezione negli anni (e nei secoli dei secoli amen). Dopotutto il cubo di Rubik, il rompicapo supremo (appunto: come l’amore), Eli lo risolve in quattro e quattr’otto. Non è un’ambiguità peregrina: nel romanzo da cui il film è tratto, John Ajvide Lindqvist restringe il margine di dubbio, chiarendo la natura di Håkan (che ha conosciuto Eli in età matura, e nutre per lei un’attrazione problematica), in opposizione a quella di Oskar, e, in un raccontino-epilogo successivo, fa intendere che il ragazzo verrà presto trasformato in un vampiro assurgendo dunque a definitivo compagno di vita/morte per Eli. Alfredson, invece, sull’ambiguità lavora, di ambiguità irrora ciascuna scena che i due condividono. Fin dall’entrata in scena di Oskar, rinchiuso dietro un vetro appannato, mentre la neve cade, come al principio di un sogno. E magari il finale lo è già, un sogno, e anche Oskar, dopo il supplizio in piscina (per mano di un bullo squilibrato e di bulletti spaesati, nella desolazione di figure adulte spettrali), è già morto, anche lui, e solo allora può avvenire, sancirsi l’unione.
Ma l’incantamento principale di Lasciami entrare rimane questo costante indagare, questo mutamento di senso e percezione emozionale che riverbera da immagini sempre uguali, da sguardi impenetrabili eppure – dal nostro esterno – mutevoli. È il bello di un film metamorfico nella sua fissità, che alla fine rileva l’ambiguità tutta in chi guarda: per me, è come la meravigliosa, inarrivabile chiusa di La rosa purpurea del Cairo. Cecilia ha perduto due anime gemelle in una, in un colpo letale di fantasia e realtà. Eppure, tornata in sala, torna a sorridere (accadrà anche a noi?). Lenita dall’inesauribile sogno del cinema, o beffata, irretita nuovamente, ciclicamente, da una finzione-fuga, da un magnifico abbaglio? È salvezza o eterna illusione, per Oskar e Cecilia? Tornando a guardarli, e a cercare nei loro occhi, nelle inquadrature, nel moto visuale di entrambi i film, nel tempo infinito di quello che è stato/è ancora il Lockdown, nello schermo piccolo di tv o pc, che imprigiona e toglie il respiro, che sottrae ampiezza prospettica, e vastità, per l’appunto, sdrucciolevolezza, al mistero, è forse più semplice appannare quei finali di pessimismo, sentirli morse, tenaglie. Oppure, al contrario, potrebbe succedere di intersecarli, nello scandaglio del digressivo archivio MUBI fatto di sottomondi cinematografici, di variabili nascoste e variazioni sul tema a ripetizione, tra Ferrara, Park Chan-wook, Franco, Amirpour, Jarmusch; espanderli, quegli sguardi, scoprirne filamenti, precursori, riflessi. E così, ancora una volta, giocare al gioco bellissimo e terribile dell’amore e del cinema, accogliere un’ibridazione in più, lasciar entrare lo splendore di quell’incertezza.