Un Natale Rosso Sangue
Il film di Bob Clark è un horror cult natalizio che, nonostante il passare degli anni, non perde forza e potere disturbante.
Un Natale Rosso Sangue (Black Christmas) è il quinto film di Bob Clark, regista statunitense che fu anche attivo nella scena cinematografica canadese per ben dieci anni, dal 1973 al 1983. E’ proprio in questo arco di tempo che realizzò i suoi film più conosciuti, tra cui La Morte Dietro la Porta (Dead of Night, 1974), ottimo orrorifico a tematica zombie e il celeberrimo Porky’s (1981), caposaldo del filone goliardico-studentesco. Black Christmas è considerato il primo slasher ambientato in una festività; se si guarda, in senso più ampio, agli horror a cui il Natale fa da sfondo, troviamo alcuni predecessori, tra cui Silent Night, Bloody Night (1972) e il magnifico antologico Incubi Notturni (Dead of Night, 1945), con una ghost story natalizia. La pellicola di Clark ha dato il via a un trend che prese piede soprattutto negli anni ’80, con Babbi Natale assassini, pupazzi di neve letali e via discorrendo, abbattendo una sorta di tabù riguardante una festa religiosa e dedicata in primis ai bambini.
Il plot si svolge tra la notte della Vigilia e il giorno di Natale, in una casa per studentesse la cui maggioranza delle inquiline è in viaggio per le vacanze. Nella villa, restano cinque personaggi: Jess (ottima Olivia Hussey), la disinibita Barb (Margot Kidder), l’occhialuta Phyl (Andrea Martin), la timida e morigerata Clare (Lynne Griffin) e infine Ms.Mac (Marian Waldman), attempata responsabile della sorority house e grande amica della bottiglia. Il perturbante si snoda su due piani differenti: la minaccia esterna, ossia le agghiaccianti telefonate oscene e minatorie che iniziano a giungere proprio nel corso della Vigilia, e quella interna, poiché il killer è dentro la casa e inizia la sua opera letale. Il tema della sessualità femminile ha un ruolo cardine nel film: Barb è sboccata e provocatoria, Jess è incinta del fidanzato Peter (Keir Dullea) ed è determinata ad abortire per proseguire i propri studi. Si parla di sesso con libertà, non per nulla quelli erano gli anni della liberazione sessuale di cui Clark offre un campione credibile, senza cadere nella trappola di facili stereotipi: anche in questo dunque, il film può essere visto come un precursore, nel mettere in scena personaggi femminili indipendenti e autonomi all’interno di un genere spesso considerato erroneamente misogino.
L’orrore è giocato sul dubbio e sull’ambiguità: le telefonate e gli omicidi si sovrappongono, confondendo lo spettatore su come l’assassino possa, al tempo stesso o con un brevissimo stacco temporale, chiamare al telefono e uccidere in casa. Qui risiede uno dei grandi pregi della pellicola, ossia l’apparente prevedibilità che diventa spiazzamento: il finale è aperto, lasciando in chi guarda dubbi e interrogativi. I personaggi maschili sono di contorno, dal rigido e impacciato padre di Clare che arriva nella comunità alla ricerca della figlia fino al luogotenente di polizia (John Saxon), il quale entra in scena soltanto nella seconda metà del narrato. Il ragazzo di Jess, Peter, musicista emotivo e nevrotico, rappresenta l’uomo debole, contrapposto alla compagna, forte e risoluta, che decide di affrontare l’assassino ben consapevole dei rischi. Il vero protagonista è il killer/maniaco telefonico, che proprio attraverso la cornetta riesce a diventare uno dei cardini del film, utilizzando un linguaggio osceno alternato a minacce di morte e capace di cambiare voce a suo piacimento: l’effetto che si ottiene è spaventevole e genuinamente inquietante.
Per la voce del killer vennero utilizzate tre persone diverse, tra cui lo stesso Clark, e la versione originale del film rende pienamente giustizia all’efficacia del lavoro sulla vocalità, che si perde nel doppiaggio italiano. Inoltre, si noti che in alcune sottotitolazioni nostrane le parole più crude sono state censurate a favore di termini maggiormente edulcorati. Il suono dunque, in questo caso la voce del portatore di morte, è ancora una volta fonte di terrore, così come nella miglior tradizione dell’orrorifico – soprattutto italiano – di quegli anni: dal falsetto alle voci di bambini vi è dunque tutto il repertorio dello spavento sonoro il quale si rivela, inutile dirlo, spesso assai più efficace del visivo. Lo score, firmato da Carl Zittrer, bizzarro e straniante, in netta contrapposizione al clima festivo, aumenta l’effetto di disorientamento.
Il plot è ispirato a una serie di delitti che ebbero luogo nella zona di Montreal e che diedero vita all’urban legend conosciuta come “The Babysitter and the Man Upstairs”, che in seguito fece da sfondo a un gran numero di slashers: si ritrova un precedente in un tv-movie che venne trasmesso poco prima della realizzazione del film di Clark, Il Gatto e il Topo (1974), in cui Kirk Douglas terrorizza l’ex moglie con telefonate agghiaccianti.
Alla sua uscita, la pellicola ricevette un’accoglienza tiepida, sia da parte del pubblico che della critica: venne poi successivamente rivalutato, assumendo uno status di cult che continua negli anni. Un film caposaldo dell’horror natalizio e tra le punte massime del filone: nonostante lo scorrere del tempo, mantiene intatto il suo potenziale sovversivo e disturbante.