Venezia 72 / Black Mass - L'ultimo gangster
Attorno ad un luciferino Johnny Deep, Scott Cooper costruisce un gangster movie scorsesiano derivativo e di puro mestiere, formalmente impeccabile ma privo di un'identità propria.
Crazy Heart, Out of the Furnace e Black Mass – L’ultimo gangster. Ovvero Altman, Cimino ed ora Scorsese. La carriera di Scott Cooper sembra sempre di più un confronto fedele e scolastico con il grande cinema americano nato dalla New Hollywood, un bagaglio di mitologia ed estetica che Cooper recupera con evidente affetto e continua a riproporre in un’ottica di puro mestiere.
Arrivato alla terza prova, autore di una tripletta formalmente ineccepibile ma in cui tutti e tre i poli mancano di identità propria e autentica energia, Cooper può essere visto come un caso particolare di anti-autorialità, un regista intenzionato a confrontarsi con il genere nelle sue accezioni più classiche ma che al contempo si ostina a rimanere fuori dal quadro, senza rischiare nessuna intuizione personale che possa uscire dai binari consolidati dai maestri prima di lui. Il risultato è un film sicuramente depotenziato, un’esposizione di storia del cinema i cui elementi singoli contano più del risultato complessivo, e tuttavia Black Mass resta comunque una visione con un suo valore, per quanto derivativo.
Interpretato da un Johnny Deep decisamente in parte, finalmente sotto le righe e alle prese con un luciferino boss irlandese, Black Mass è il racconto di un patto con il diavolo, la ricostruzione di come l’ufficio dell’FBI di Boston si sia lasciato invaghire dalle promesse faustiane di James “Whitey” Bulger, divenuto informatore del bureau in cambio di un’immunità che gli ha permesso di diventare da boss di quartiere a vero re del crimine. Il cotè politico di Cooper non potrebbe essere più chiaro, e sotto attacco è quella prassi tipicamente americana di voler sconfiggere i nemici di oggi nutrendo quelli di domani. E’ così che il boss di Deep diventa un vero e proprio vampiro tentatore, demonio dalla mente insondabile e gli occhi di ghiaccio, appesantito da un trucco volutamente grezzo che lo rende un nosferatu vicino alla decomposizione.
Oggetto delle sue lusinghe è soprattutto l’agente dell’FBI John Connolly, ex ragazzo di strada che finisce vittima del suo stesso tentativo di bilanciare affari, lavoro e amicizia. Incarnato da Joel Edgerton, che ben ne sottolinea la fatale ingenuità, Connolly è di fatto il vero protagonista della vicenda, una figura meravigliosamente contraddittoria che il film rinuncia ad indagare fino in fondo. Ma questo è un problema generale di Black Mass, in cui tutti i personaggi vengono lasciati nei loro confini più facili e abbozzati, compresi caratteri affascinanti e che necessitavano di ben altro trattamento come il Senatore fratello di Bulger e la moglie di Connolly.
Al centro delle attenzioni di Cooper non rimane tanto Bulger in sé, che in quanto figura diabolica resta sempre un passo oltre la vista e la conoscenza dello spettatore, ma la cronaca, l’ordine degli eventi che portano al crollo del castello di carte. Un peccato, perché dall’interno di un impianto di genere così rodato – Cooper imita Scorsese ma con rigore e grande composizione formale – si poteva osare molto di più, si poteva tentare di arginare l’importanza dei fatti accaduti per affondare almeno un poco nelle psicologie di questi personaggi così aporetici.
Rispetto al precedente Out of the Furnace qui Cooper compie comunque un passo in avanti, riduce il carico mitologico del film precedente (che aveva cacce al cervo, fabbriche nei boschi, duelli western e vite di periferia) e lavora più da vicino sui meccanismi narrativi interni. Il risultato è un film dall’evidente valore artigianale, forte di quell’onestà umile e diretta che manca ad esempio al David O. Russell di American Hustle. Sarebbe poco corretto allora imputare a Cooper di non essere Scorsese, però resta il fatto che la qualità del materiale a disposizione avrebbe meritato un po’ di coraggio e personalità in più, un’ossessione meno attenta alla fedeltà scolastica dell’apparato formale e più vicina al cuore dei suoi personaggi.