Woody Allen è un signore di ottantadue anni, che da oltre cinquanta fa il regista, lo sceneggiatore, il comico e lo scrittore. Da quando ha iniziato a girare film ne realizza regolarmente uno all’anno, con pochissime eccezioni. È in base a questo presupposto che può essere smontata una delle tante critiche che spesso si leggono nei confronti dell’autore newyorkese, ovvero che la qualità dei suoi film sarebbe diminuita a causa di un aumento della quantità delle produzioni. La frequenza con cui Allen lavora è sempre stata estremamente alta ed è assolutamente normale che quando si girano così tanti film gli esiti siano almeno in parte altalenanti. Non è normale invece quello che è accaduto nel ventennio Settanta-Ottanta, in cui la qualità delle opere dell’autore è stata costantemente a livelli altissimi, facendo di lui una delle voci più rilevanti della storia del cinema. La normalizzazione della sua produzione non comporta però una ridiscussione della sua caratura e la realizzazione di film come La ruota delle meraviglie è l’ennesima testimonianza di un autore che oggi può fare (come tutti) dei passi falsi, ma che ha sempre in serbo il colpo di coda.
È possibile aprire un ciclo a ottant’anni? Per alcuni sembra impossibile, per altri assolutamente non necessario, ma Woody Allen sembra avere tutta l’intenzione di farlo. Perché sì, La ruota delle meraviglie non è solo un grandissimo film, ma anche un’opera in continuità con il suo precedente e altrettanto luminoso lavoro, Café Society. A determinare questo nuovo percorso c’è il sodalizio estremamente virtuoso con un altro talento sconfinato, quello di Vittorio Storaro. Il celebre direttore della fotografia italiano, per tanti anni braccio destro di Bertolucci, si è lanciato con il regista di Manthattan nella sperimentazione sul digitale raggiungendo risultati a dir poco sorprendenti. Già Café Society rappresentava un esordio di altissimo livello, in cui l’illuminazione della scena recitava un ruolo da protagonista e alla freddezza dei blu che coloravano i bozzetti della famiglia ebraica del protagonista si contrapponevano i colori accesi dei sentimenti che univano il triangolo di personaggi al centro del racconto. La ruota delle meraviglie però porta questo discorso a uno stadio ancora più radicale, utilizzando le potenzialità del digitale in modo assolutamente inedito, soprattutto per quanto riguarda la variazione dell’illuminazione e dei colori all’interno di una stessa scena.
Questa volta non ci sono Manhattan e la musica della Grande Mela a popolare l’ultima magia di Woody Allen e neanche la Hollywood amata e odiata dall’autore, ma la periferia di New York, quella Coney Island fatta di spiagge tutt’altro che di lusso e di luna park popolati da un’umanità perdente, spesso disillusa e abituata ai fallimenti. In questo paesaggio decadente, ma costantemente modellato dalla luce di Storaro, si staglia un quadrangolo di personaggi in cui emerge la centralità di Ginny (Kate Winslet) ex attrice di teatro di scarso successo e con una vita alle spalle piena di rimpianti. Al suo fianco c’è il marito Humpty (Jim Belushi) vedovo e alcolizzato che gestisce una giostra nel luna park; i due stanno insieme soprattutto per convenienza e comodità, tra loro non c’è alcuna traccia d’amore. L’altra donna del quartetto è Carolina, giovane e bellissima figlia del primo matrimonio di Humpty e in fuga da un marito gangster. A completare il gruppo c’è Mickey (Justin Timberlake), bagnino che sogna una carriera da autore teatrale e dal nulla ruba il cuore a Ginny, facendole immaginare un’altra vita, ma poi si innamora di Carolina.
La poetica di Allen non è mai stata particolarmente ottimistica, anzi, anche nei momenti più brillanti o leggeri è sempre stata attraversata da una malinconia di fondo inestinguibile, che in alcune opere prende il sopravvento sul resto con decisione. In questo caso l’autore è meticoloso nel mantenere il film in equilibrio e ragionare sul rapporto tra superficie e profondità. La ruota delle meraviglie infatti è una profonda riflessione sul contrasto tra la forza luminosa dei desideri e la deprimente necessità di accettare i propri sogni infranti, sulla splendida luce di un luna park visto da lontano e la ruggine delle giostre di cui è composto. La potenza del cinema per Allen (e Storaro) non consiste solo nell’elevare la condizione dei protagonisti da uno stato di sconsolante realtà a quello del sogno, portandoli a credere di poter fare l’impossibile, ma anche nel mettere a fuoco (attraverso un uso quasi diagnostico della macchina da presa e della luce) lo smarrimento esistenziale dei suoi antieroi.
Per l’ennesima volta Woody Allen riesce a sorprendere divertendosi, trovando un equilibrio magico tra il ritmo brillante della narrazione e il racconto di loser disperati e malinconici. Al centro della scena naturalmente il personaggio interpretato da Kate Winslet, eroina perdente e per questo ancora più affascinante, che si fa strumento principe della fusione tra cinema e teatro operata da Allen e Storaro. La potenza della sua performance sembra generare un’onda d’urto talmente forte da relegare molto spesso tutti gli altri personaggi nelle quinte di quella che diventa una vera e propria scena teatrale, esaltata dalla steadycam del magnifico duo di artisti che sottolinea ad ogni passo la prossemica dell’attrice in maniera stupefacente.
La ruota delle meraviglie è infine anche un testo sul quale Vittorio Storaro ha la possibilità di esibire il proprio talento, sperimentando sull’immagine digitale attraverso un uso della luce che si allontana in maniera radicale dal naturalismo per abbracciare uno sguardo di tipo espressionista: l’illuminazione e i colori in cui è immersa Ginny riflettono l’oscillazione dei suoi sentimenti e del suo stato d’animo dando vita a un caleidoscopio di emozioni e colori unico.