Venezia 72 / Equals

In Equals va in scena l’amore come atto di ribellione e di resistenza contro se stesso/i prima ancora che contro il potere che vorrebbe reprimerlo.

Nel futuro utopico di Equals l’amore è una malattia contagiosa, capace di sconvolgere i precari equilibri del nuovo mondo, asettico come un enorme laboratorio di vetro. Le emozioni sono represse e con loro qualsiasi pulsione. Eppure, nonostante i progressi della scienza, ancora non esiste un antidoto in grado di debellare definitivamente l’amore. Le poche medicine in commercio possono tutt’al più rallentarne il decorso, ma non curarlo. Insomma, malgrado tutto resta ancora una possibilità, un’ipotesi, una scintilla improvvisa pronta ad accendersi in qualsiasi istante, persino dopo un disperato quanto banale suicidio. E’ la compassione a cambiare tutto. Lui si gira verso di lei, sconvolto. Cerca il suo sguardo, il suo volto. Un dolore da condividere. Il processo inarrestabile dell’amore seguirà un percorso sempre più intenso di scoperta dell’altro. I pedinamenti notturni, gli incontri in bagno, la prima carezza, il primo bacio, la prima notte di sesso. E poi la paura di essere scoperti, reclusi e curati. E soprattutto il timore più grande: che di tutto questo non resti che un pallido ricordo senza emozioni. Insomma l’amore è (ogni volta) un atto di ribellione e di resistenza contro se stesso/i prima ancora che contro il potere che vorrebbe reprimerlo. E’ una lotta contro il dolore della perdita, contro la possibilità della fine, contro il pensiero che ricorda e ritorna. Pensiamo subito a Se mi lasci ti cancello, a cui questo film si ricollega proprio sul tema dell’ostinazione dell’amore come forza permanente che rinasce ogni volta dalle proprie ceneri. In questo caso si tratta della prima volta. Forse dell’unica volta. I protagonisti devono imparare ad amare ma anche a mettere in discussione ogni cosa, a soffrire, come se si trattasse di una lingua nuova; e come insegna il caro Roland Barthes l’alfabeto dell’amore è molto più complesso di quanto si possa pensare…

Prima di tutto gli occhi allora, poi viene la parola ed infine il corpo, bramato, temuto, ed esplorato lungo la sua superficie come una terra straniera. Doremus è bravissimo nel farci sentire tutti i fremiti che anticipano e poi accompagnano questo processo di scoperta. Si prende i suoi tempi, lavora sulle attese e sulle traiettorie dello sguardo. Rinvia il più possibile il momento liberatorio. Si parte pianissimo e un po’ interdetti, poi a poco a poco prende corpo una fortissima tensione erotica che si scioglie in due tempi distinti: prima lentamente, nelle bellissime sequenze nel bagno, e poi impetuosamente, a casa di lui. E’ un processo a combustione lenta che viene poi ripetuto in scala minore nelle battute finali, quando i due amanti si cercano senza trovarsi, fino all’ultima straordinaria inquadratura a metà strada tra l’Eastwood di Hereafter, lo Tsai Ming-Liang di The Hole e il Kaurismaki di Le luci della sera: il contatto con l’altro come raccordo tra i corpi che sancisce la loro suturazione definitiva in uno spazio condiviso.

Insomma, Doremus riesce là dove molti registi ben più attrezzati e riconosciuti hanno fallito: ovvero filmare quel particolare momento in cui si varcano e si riscrivono le frontiere dello spazio individuale. Lo fa con pochi mezzi e con un’estetica a tratti fragilissima, persino banale nella definizione di una virtualità neutra e astratta, tutta giocata sulla trasparenza. A fare la differenza è la forza dei sentimenti messi in campo. E qui, nonostante i tantissimi limiti, si percepisce l’incontenibile necessità di fare cinema interrogando l\'immagine amorosa. Un’indagine spudorata, essenziale, ossessiva - se si pensa alla costanza con la quale è stata affrontata dall’autore anche nelle opere precedenti - commovente nella sua semplicità.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 05/09/2015

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