Venezia 72 / Sangue del mio sangue
Bellocchio partorisce streghe e vampiri dentro una Bobbio divisa nel tempo, una fantasmagoria per tornare a raccontare il Potere e riflettere su 50 anni di carriera.
50 anni fa c’erano la potenza e il dolore de I pugni in tasca, grido di rabbia nato nei luoghi famigliari della Val di Trebbia. Sempre lì, a Bobbio, ogni estate ritorna il Laboratorio “Fare cinema”, fabbrica di energie e talenti e narrazioni. Quelle stesse che già animavano Sorelle mai e che tornano oggi con Sangue del mio sangue, libero intreccio di orrore e fantastico, grottesco e onirico, che sempre più rende giovane il cinema di Marco Bellocchio e Bobbio una scatola magica sede di storie e leggende – “Bobbio è il mondo”, dice il conte di Roberto Herlitzka.
Anche a distanza di anni, come fosse l’incarnazione spaziale di una personale Shahraz?d, la piccola cittadina continua ad essere per il regista piacentino lo scrigno da cui attingere fantasmi e suggestioni, palchi sui quali continuare ad esplorare quei temi già espressi e visitati in cinquant’anni di carriera ma ancora forieri di una grande forza cinematografica.
Sangue del mio sangue nasce dal ritrovamento causale da parte del regista delle vecchie prigioni del paese, un sito abbandonato da decenni e un tempo parte importante del convento di S. Colombano. Tuttavia queste rovine diventano sede di uno scavo personale che segue un doppio binario: da una parte il tessuto familiare, evidenziato dal carattere intimo e personalistico di un film realizzato con fratelli, figli, amici, dall’altra la natura quasi meta-cinematografica della produzione, nata da una riflessione evidente fatta da Bellocchio sulla totalità del proprio percorso cinematografico e artistico.
E’ come se, nell’anniversario dei 50 anni del suo potentissimo esordio, il regista avesse sentito il bisogno di tornare a confrontarsi direttamente con quei luoghi infantili e biografici, forse necessariamente connessi alla propria identità di cineasta, e di trasformare tale incontro in una rilettura della propria evoluzione poetica. Il risultato è un ritorno intimo e brillante, una giostra fantasmagorica che sembra nascere dall’improvvisazione e dall’istinto e che guarda direttamente al nucleo del cinema di Bellocchio: il rapporto con il Potere inteso nei termini del conflitto e della rivalsa poetica.
Sangue del mio sangue pone a dialogo due linee temporali apparentemente scisse, all’interno delle quali un gioco di rimandi e allitterazioni genera una struttura complessivamente circolare.
Il passato, oppresso in interni foschi come un chiaroscuro di Velázquez, mostra in azione il potere coercitivo della Chiesa, impegnata a torturare una suora accusata di stregoneria e infine murata viva in un’ala del Convento. Il presente invece sovverte questo registro narrativo e fa esplodere una vicenda grottescamente pirandelliana, che guarda direttamente all’Ispettore generale di Gogol’. La Bobbio del presente infatti non è più un semplice e austero villaggio nato attorno al Convento, ma un paese di provincia dominato da intrallazzi e amicizie e favori, una rete di furberie e accordi che non può che precipitare nel panico alla notizia dell’arrivo di un Ispettore del Ministero. Tocca iniziare a fare le ricevute, tocca sistemare i conti delle pensioni, tocca nascondersi per non rivelare che i propri occhi e orecchie da invalido ci vedono e sentono benissimo.
Come fosse una mappa interattiva capace di ospitare al suo interno 50 anni di carriera, Sangue del mio sangue riesce così a restituire l’evolversi della carriera di Bellocchio, dalla prima fase più cupa e ossessionata dal corpo e il potere, la carne e lo spirito, ai toni più grotteschi e meno arrabbiati degli anni 2000, nel corso dei quali il suo cinema è stato il meglio che il cinema italiano abbia saputo offrire.
Per stessa ammissione di Bellocchio, il progetto di Sangue del mio sangue nasce dalla volontà di raccontare la tragedia della suora Benedetta (Lidiya Liberman), nucleo ideale da cui partire per toccare molti dei temi che da sempre scandiscono il suo cinema. Su tutti il ruolo coercitivo della Chiesa, manifestazione assoluta di un Potere ottuso, avido di corpi, volgare nelle sue rozze manifestazioni di forza.
All’interno di tale meccanismo si muove come elemento esterno il soldato Federico (Pier Giorgio Bellocchio), il cui rapporto con il fantasma del fratello permette a Bellocchio di tornare sul proprio di lutto, la perdita del gemello che già aveva generato anni addietro Gli occhi, la bocca. Federico infatti precipita come un personaggio polanskiano nelle orme del fratello suicida, caricandosi sulle spalle la forza gravitazionale di una carnalità che sconvolge e viene sconvolta, diavolo in corpo che contagia chi lo ospita ma finisce a sua volta vittima di un incantesimo femmineo e bellissimo. Entrambi i fratelli infatti non possono che cedere di fronte alla figura di Benedetta, un potere questo sì autenticamente sacrale, capace di attraversare indenne la Storia e di camminare sui corpi sconfitti dei propri nemici e traditori.
Tra questi nemici si annovera nella seconda parte del film il Conte Vampiro di Herlitzka, evoluzione di un Potere che passa dall’evidenza secolare dell’Inquisizione ecclesiastica alla più subdola e sottile ingerenza di chi si nasconde dai riflettori ma non rinuncia ad esercitare la propria egemonia. La Bobbio di oggi è infatti una bolla di permissioni e privilegi che resta fuori dal tempo, un territorio stregato il cui demone è un vampiro invisibile che ne garantisce anno dopo anno l’immunità morale e legale. Il vampirismo è l’anima del potere di Bobbio e dell’Italia di oggi, origine di uno status che può anche tremare all’arrivo del considdetto Ispettore, ma la cui autentica fine non può che coincidere con quella del Conte.
A far crollare il teatrino di farsa e accomodamenti deve essere la morte del nosferatu, ma la sua sconfitta ha origini molto più antiche, nel desiderio di innocenza e giovinezza perdute che lo portano incautamente a ritornare alla luce del sole, nella forza di un desiderio a lungo intrappolato ma comunque capace di sopravvivere e rigenerarsi nella sua pura bellezza.