Venezia 72 / Winter on Fire

Manca una formulazione estetica e filosofica in grado di restituire tutta la complessità degli ultimi due anni di storia ucraina.

Oggetto strano questo Winter on fire, presentato in sordina fuori concorso a Venezia. Non certo per la forma, scolastica e televisiva, quanto piuttosto per lo scarto temporale che lo separa dagli eventi raccontati, ovvero la rivoluzione ucraina che tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 ha rovesciato il governo del filorusso Yanukovych, costretto alle dimissioni e alla fuga. Ricordate i celebri moti di piazza Maidan? Ecco, il film racconta esattamente questo. Ma con un anno e mezzo di distanza, come se in qualche modo il regista avesse avuto bisogno di allontanarsi da quei fatti per poterli vedere meglio e organizzarli in una narrazione compiuta. In radicale controtendenza rispetto all’epoca che viviamo, sempre più connessa e in tempo reale, in cui gli eventi vengono filmati e pubblicati senza la mediazione di registi o giornalisti. Al contrario sono proprio quest’ultimi a servirsi di quei materiali, tentando di costruire argini e dighe al flusso continuo di informazioni che circolano in rete. Il nuovo azzardo non è più creare qualcosa dal niente, ma al contrario donare nuova vita ai materiali di archivio. Riorganizzarli criticamente, ripensarli in una forma nuova, creare link, connessioni inattese, relazioni simboliche. Fosse anche l’immagine più traballante, sgranata o imperfetta, non importa. Il cinema è ovunque. Pensiamo ad esempio ai tanti documentari siriani (Silvered Water, Syria Self-portrait; Home; Our Terrible Country; The Immortal Sergeant; Coma; Return to Homs; Wanted) che negli ultimi due anni sono circolati nei festival di mezzo mondo: racconti in presa diretta e ad altezza di sguardo in cui i civili hanno filmato il loro quotidiano come fosse un lungo autoritratto del paese e delle loro vite. Anche al rischio della tortura e della morte. E persino oltre la morte, spesso mostrata direttamente dalla vittima, colpita da una pallottola vagante mentre riprendeva, oppure al cimitero, mentre si piangeva e si seppelliva il proprio caro. La resistenza in Siria è stato un fatto estetico prima ancora che bellico. In questo senso viene in mente il fondamentale Silvered Water, opera di una lucidità sconcertante, costruita attraverso lo sguardo di tutti, compresi i carnefici. Perché ogni immagine ha la sua drammaturgia, e non esiste racconto di guerra che possa escludere questo conflitto delle e tra le immagini.

Ecco, davanti a Winter on Fire si ha la sensazione che il suo autore non abbia visto le opere sopracitate. Come spiegare altrimenti quell’ingenua fiducia che accorda alle proprie scene, levigate e confezionate come se fossero già pronte per l’esportazione? Per carità, nessuno mette in dubbio la bontà dell’operazione – prodotta, ricordiamolo, da Netflix – né tantomeno la sincerità di fondo che guida lo sguardo del regista, evidentemente toccato da quei fatti. Semmai lascia perplessi questo controllo formale così insistito, oppure l’utilizzo ricorrente delle interviste e di un vocabolario spesso incline alla facile retorica nazionalista. Insomma, manca una formulazione estetica e filosofica in grado di restituire tutta la complessità degli ultimi due anni di storia ucraina. Soprattutto di quello che è accaduto dopo la rivoluzione, ovvero l’invasione della Crimea ad opera di Putin, la guerra civile, i fascisti al potere, ecc. E non bastano di certo tre didascalie nei titoli di coda ad esaurire l’argomento od allontanare il sospetto di un’operazione propagandistica. D’accordo, l’intento era un altro, ovvero celebrare le gesta del popolo ucraino, resosi protagonista di un fatto straordinario. Tutto il nostro rispetto, ovviamente. Il problema però è proprio questa maledetta distanza tra le immagini, tra la frenesia instant dei singoli frammenti e la forma addomesticata dell’opera nella sua interezza. L’impressione è che si sia voluto realizzare a tutti i costi l’opera perfetta da mandare a futura memoria. E la perfezione, si sa, non ammette sbavature o contraddizioni di sorta. Che si celebri pure la rivoluzione, dunque! Ammesso che ci sia ancora qualcuno oggi disposto a festeggiare...

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 04/09/2015

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