Rebel Ridge
Da "Rambo" a "Copland", Jeremy Saulner riscrive coordinate note restando fedele alle griglie del suo, ottimo, cinema di genere.
«È cinese. Combatteva con gli altri» - «Ah. È bello ritrovarci tutti insieme».
In questo scambio di battute tra Terry Richmond e Summer McBride, nel retrobottega del ristorante cinese in cui il primo si sta facendo medicare dal dottor Liu, Jeremy Saulnier condensa un ritratto dell'America in cui, ancora oggi, ci sono gli “altri” ovvero tutti quelli che non sono maschi, bianchi e probabilmente eterosessuali. “Tutti insieme”: due cinesi, un nero e una donna. Che non sono protagonisti di una barzelletta, al contrario: nella storia in cui sono coinvolti non c'è proprio niente da ridere.
«Quando mi hanno mandato via ero riconoscente. Come se avessi tutta la vita davanti, ho anche sentito Mike dirmi che era giusto così. L'addestramento, ciò che insegno, è per lo più l'autopreservazione, quindi non ho fatto che applicare quei principi» spiega poco dopo Richmond, nel momento in cui annuncia di voler cambiare strategia («E non era di Mike quella voce, era la mia»), ma, in fondo, anche approccio alla vita. Fino a quel momento è stato una sorta di Booker T. Washington, il “grande accomodatore” come lo definiva W.E.B. Dubois, che non ne condivideva il progetto di integrazione impostato su una sostanziale subordinazione ai bianchi ricchi e influenti dai quali ottenere finanziamenti e prebende. O, ancora, un uomo convinto, come Martin Luther King che «la violenza è un modo immorale e poco pratico di ottenere giustizia. Poco pratico perché è una spirale che porta alla distruzione. La vecchia legge dell'occhio per occhio ci lascia tutti ciechi», solo che il suo atteggiamento di pacifica resistenza non ha portato a nulla di buono e allora, forse, meglio ispirarsi a Malcolm X che non era contrario a usare la violenza in caso di legittima difesa («Non la chiamo violenza, quando la si usa in autodifesa, ma intelligenza»). Insomma, Richmond, che pure aveva consigliato a Summer di non gettare benzina sul fuoco, decide di essere fuoco.
Quella di personaggi non avvezzi alla violenza è una costante della filmografia di Saulnier: dal protagonista di Murder Party, l'ingenuo Christopher, che si ritrova a una festa di Halloween sui generis, fino al naturalista in pensione di Hold the Dark passando per il mite, ma devastato, Dwight del folgorante Blue Ruin e la punk band di Green Room che, lontana dall'autopreservazione (ma del resto è punk), intona Nazi Punks Fuck Off dei Dead Kennedys in un pub gestito da suprematisti. Da questo punto di vista, però, il protagonista di questo Rebel Ridge, Terry Richmond, non è l'individuo ordinario costretto dalla situazione a tirare fuori il peggio di sé, anzi è l'unico programmato per reagire a un abuso, da istruttore di Ju Jitsu quale è. Ma è anche un nero in America e quindi abituato (lo si capisce subito da come si comporta nel fermo dell'incipit) a stare al suo posto, a non “far incazzare” l'autorità. Citando ancora W.E.B. Dubois, pure lui è afflitto dalla double consciouness afroamericana: da una parte orgoglioso delle proprie origini, dall'altra desideroso di essere considerato non un americano nero, ma un americano e basta.
Rebel Ridge comincia come Rambo, ma Terry Richmond non è reduce da una guerra cui non ha mai partecipato, è un sopravvissuto in un conflitto che, tra una tregua e l'altra, insanguina la sua terra da sempre. Dal cult movie di Ted Kotcheff poi si plana in territorio Copland, uno dei tanti capolavori firmati da James Mangold, con cui condivide il racconto di una comunità che (af)fonda sulla corruzione della polizia locale, sul raggiro e sulla strategia delle tre scimmiette (non vedere, non sentire, non parlare). Saulnier si prende tutto il tempo necessario prima di far deflagrare la vicenda nell'eccesso di violenza dell'ultima parte. D'altronde, non è S. Craig Zahler (altro regista che, alla pari di Saulnier, Tarantino, Jim Mickle e del Damon Lindelof della serie Watchmen, ha contribuito alla rigenerazione di Don Johnson) e Rebel Ridge è più simile a Blue Ruin (anche nella sua natura di revenge tale) che a Green Room, ma di sicuro è stato anche baciato dalla buona sorte, se è vero, come è vero, che Aaron Pierre, perfetto, sia giunto in sostituzione della prima scelta che era John Boyega.