Vikings - 3° Stagione
Un analisi della terza stagione della riscrittura compiuta da Michael Hirst del mito dei norreni e del leggendario Lagnar Lothbrock.
La terza stagione di Vikings può considerarsi la consacrazione di una serie che si è saputa evolvere e maturare grazie a due elementi. Da una parte è ormai una certezza di qualità la scrittura shakespeariana di un talento nato delle cronache storiche, quella di Michael Hirst (Elizabeth, The Tudors), ma è evidente l’impronta di History Channel, che da anni si è inserita con furbizia sul mercato, producendo documentari che avessero sia una validità accademica che un forte senso dello spettacolo.
Il terzo atto dell’epica norrena è sia di passaggio che di chiusura. L’impressione è di essersi trovati di fronte a tre movimenti diversi, uno di nascita, ovvero la prima stagione, durante la quale Ragnar Lothbrock (Travis Fimmel) diventa Jarl; una seconda stagione di espansione, nella quale Ragnar consolida un potere temporale e assume la carica di Re; e quest’ultima tappa, dove la forza motrice pare essere quella dell’esplosione, o dell’implosione, ovvero della morte.
Il protagonista, l’eroe principale Ragnar, affronta una crisi, un virus religioso chiamato Athelstan (George Blagden). Abbiamo dovuto aspettare quasi venticinque puntate, seppur colme di presagi, per comprendere il vero significato narrativo dell’ex-monaco. Athelstan si presentava nella prima stagione come l’innocuo, timido cristiano, costretto a scontrarsi con una cultura barbara. E invece si fa il portatore dell’intera storia della cristianità, e tra le quinta e la sesta puntata (The Usurper, Born Again) è proprio il suo personaggio che per la prima volta rende pratica e reale la presenza del Dio cristiano. A questo punto Athelstan diventa martire, e muore, ucciso da Floki. E’ un gioco narrativo delizioso, perché in un mondo dove tutti i vichinghi si direzionano verso uno scopo che lentamente li porterà distanti dalla sacralità pagana e verso il feudalismo cristiano, Floki è l’unico che rimane fedele alle divinità norrene. Il martirio di Athelstan provoca l’ennesimo passo di un destino che pare chiaro, la conversione di Ragnar (seppure gli ultimi secondi della season finale, The Dead, sono enigmatici sulla questione), che d’altronde va a simboleggiare la conversione dell’intero nord. Facendo un passo indietro, sono più che valide anche le puntate che vedono protagonista l’errante giunto a Kattegat (The Wanderer, Warrior’s Fate, Scarred). Il viandante interpretato da Kevin Durand stravolge la vita della cittadina, innescando una serie di eventi che probabilmente avranno il loro peso solamente nella prossima stagione (alla morte di Siggy seguirà il matrimonio cristiano di Rollo). Inoltre la sua breve presenza aveva annullato i poteri del “Seer” (John Kavanagh), che era l’unica reale centralità pratica di mana pagano. Qual è significato? Il viandante era una divinità pagana, forse Odino stesso (conosciuto nella mitologia vichinghe, d’altronde, anche come “il saggio viandante”), o il Dio monoteista?
Ma la conversione cristiana non è certamente un sinonimo di conversione al bene. Hirst è abile nel caratterizzare la maschinità dei due lord cristiani, il Re Ecbert (Linus Roache) ed il nipote di Carlo Magno, l’Imperatore Charles (Lothaire Bluteau) di Francia. Sono entrambi protagonisti di un atto anti-cristiano per eccellenza, il tradimento nei confronti dei figli, il primo diventando l’amante della moglie del primogenito Aethelwuf (Moe Dunford), il secondo concedendo in matrimonio, in difesa della propria persona più che della Francia stessa, la figlia e principessa al condottiero Rollo (Clive Standen).
Il finale di stagione è, ribadisco, shakespeariano fino al midollo. Il dolore morale di Ragnar causato dalla morte dell’amico fraterno Athelstan si accentua, ed in preda ad uno spasmo di rabbia e dolore per le ferite sia fisiche che d’anima, accusa finalmente Floki della morte del monaco.
E’ difficile trovare dei difetti anche tecnici alla terza stagione di Vikings. La battaglia per Parigi è diretta e ricostruita con cura, ma non assistiamo ad una battaglia visivamente roboante ed hollywoodiana. Potremmo pensare che sia forse un difetto in questa era di CGI dominante, come ormai sono abituati i nostri occhi, ma qui vige qualcosa di più intimo e, appunto, teatrale.