Un colpo di fortuna - Coup de Chance
Un trasformismo e una vitalità che a ottantotto anni, dopo cinquanta film e altrettanti anni di carriera, confermano, come se ce ne fosse ancora bisogno, la grandezza di un regista che ha ancora voglia di mutare e aggiornare il cinema, indifferente alle critiche e fedele a ciò a cui ha sempre creduto.
«Sarei voluto nascere in Europa ed essere un regista francese».
Sono le parole con cui Woody Allen, durante la presentazione in anteprima italiana il 15 settembre, ha voluto introdurre il suo ultimo, e cinquantesimo, lungometraggio: Un colpo di fortuna - Coup de Chance. Una frase che riesce a inquadrare e illuminare sotto un’altra e ben precisa luce un film che, da una buona parte di critica (soprattutto francese), è stato ritenuto debole e stancamente adagiato sui classici stilemi del cinema alleniano. E a un primo, superficiale, sguardo si potrebbe quasi pensare di concordare con chi ritiene che ormai Allen scriva e diriga film con il pilota automatico, nel tentativo di rispolverare sceneggiature di suoi vecchi capisaldi – Match Point e Misterioso omicidio a Manhattan sono gli immediati collegamenti in questo caso – pur di non smettere di girare (per lui è sempre stata una questione di vita o di morte essere dietro la macchina da presa). Ed è proprio qui che ci viene in aiuto il postulato (o assioma, se si vuole essere radicali) citato prima: «sarei voluto nascere in Europa ed essere un regista francese». Perché con il suo ultimo film – il primo interamente in lingua straniera – Allen decide di girare un proto-remake di uno dei grandi (e dimenticati) capolavori della Nouvelle Vague: Stéphane, una moglie infedele (La femme infidèle), diretto nel 1969 da Claude Chabrol. Regista con il quale Allen, a ben guardare, ha diversi punti di contatto, a partire da una carriera indirizzata alla prolificità e longevità non indifferenti, un percorso fatalmente attratto dal mistero e spesso incentrato sulla figura della donna, epicentro in ogni sua declinazione. Ma se le sceneggiature dei due film si prestano a una convergenza tematica, è nell’equilibrio tra gli elementi e nella sostanza dell’approccio formale che emergono le (necessarie) differenze, dove il cinema di Allen prende il sopravvento sul mondo costruito da Chabrol.
Jean Fournier (Melvil Poupaud) e Fanny Fournier (Lou de Laâge) sono una giovane coppia che vive nel fiore degli anni, e del loro amore, la routine parigina. Tra case d’asta di alto antiquariato ed eleganti residenze nel cuore della capitale francese, la loro vita sembra il perfetto sogno alto borghese. Sarà un fortuito incontro con un vecchio compagno di scuola e ora scrittore, Alain Aubert interpretato da Niels Schneider, a condurre Fanny verso un destino d’infedeltà nei confronti del geloso e iperprotettivo marito.
Al netto dell’ispirazione che Allen sembra trarre dal film di Chabrol per costruire il suo primo lungometraggio “francese”, è nella coerenza con cui torna a riflettere sul cuore pulsante del suo cinema che il film si arricchisce e diventa l’ennesimo grande tassello di una folgorante carriera. Perché già dall’incipit, indice di un personale approccio alla sceneggiatura, capiamo le intenzioni del regista newyorkese, che con un lungo e avvolgente piano sequenza accompagna il primo casuale incontro tra i due futuri amanti. Ne deriva una smaccata attenzione alla dimensione romantica (spesso presente in Allen, nonostante il suo sarcasmo) che in Chabrol è del tutto assente. Si pensi a come Chabrol decide di aprire (e chiudere) La femme infidèle, con un campo totale su Hélene Desvalées (Stéphane Audran) la moglie, Charles Desvalées (Michel Bouquet) il marito, Manny (Louise Rioton) la madre di lui e Frédéric (François Moro-Giafferi) il figlio della coppia, una costruzione che sembra descrivere perfettamente i canoni di una classica e benestante famiglia francese di inizio anni 70.
Se il focus dell’opera di Chabrol risiede nella meschina facciata della famiglia borghese, nel macabro gioco al tradimento, nella noia coniugale che spesso pervade le fredde serate autunnali trascorse davanti al televisore, in Allen tutto assume sfumature differenti. La passionale storia tra i due amanti non è abbandonata nelle ellissi ma pervade la prima metà del film, mentre l’omicidio – che in Chabrol diventa un silenzioso esercizio di stile, nella miglior accezione del termine, per sé stesso e per l’assassino – occupa una parte minimale della storia, maldestramente mascherato e svelato con il colpo di scena nel finale. In Chabrol il gioco di allusioni, condotto tra movimenti di macchina, carrelli laterali e un depistante dello zoom, attraverso immagini che ruotano attorno agli oggetti di scena rimandando al mistero nascosto nel fuori campo, viene incoraggiato da una totale bidimensionalità delle pedine in gioco. Non a caso come spettatori ci ritroviamo a parteggiare inizialmente per il marito, innocente vittima del tradimento, per poi arrivare a quello splendido finale che rivela la doppiezza della famiglia nel suo complesso. Allen, al contrario, fa sì che i personaggi vivano e muoiano nella freschezza dei loro dialoghi, esaltati dalla luce di Vittorio Storaro che invade e pervade la scena con i suoi toni caldi (per la storia d’amore tra Fanny e Alain) e freddi (quando il tradimento prende forma nella mente e negli atteggiamenti del marito Jean).
Allen insomma omaggia ma al contempo prende le distanze, per parlare ancora di ciò che ama e di ciò che lui e il suo cinema sono sempre stati. A partire da quell’incipit, che racchiude tutto il calore e la passione che guideranno il film, e nella seguente attenzione alla musicalità dei dialoghi, al non detto che prende forma dal movimento dei corpi, alla spesso disillusa speranza e la casualità della vita. Un colpo di fortuna - Coup de Chance rivela un trasformismo e una vitalità che a ottantotto anni, dopo cinquanta film e altrettanti anni di carriera, non possono far altro che confermare, come se ce ne fosse ancora bisogno, la grandezza di un regista che ha ancora voglia di mutare e aggiornare il cinema, indifferente alle critiche e fedele a ciò a cui ha sempre creduto.