Rifkin's Festival
«Non ho mai fatto capolavori»: la modestia di Woody Allen come chiave di lettura.
Così Woody Allen descrive la lavorazione di Rifkin's Festival nella sua autobiografia A proposito di niente: «Un regista vessato, pieno di preoccupazioni, oggetto di attacchi continui, che già di suo non è Bergman, è in grado di sfornare un film divertente? D’un tratto la sfida diventa esaltante. Come sarà Rifkin’s Festival, il mio nuovo film? E chi lo sa. Ma so che mi sono divertito a girarlo ed è stato bello sentire Wally che recitava i miei dialoghi. La lezione che si ricava da tutto ciò, credo, è che esistono uomini che prosperano quando sono sotto pressione. Ovviamente non rientro nella categoria e, se il film verrà bene, sarà un miracolo». Ed eccolo Rifkin's Festival, cinquantesimo titolo alleniano, che rischiava di non uscire e invece - ironia non dell’arte, ma della vita - è il titolo della riapertura delle sale, nella tragedia epocale del Covid. Titolo girato nella bufera, da un regista “vessato” e “pieno di preoccupazioni” oltre lo schermo, che proprio su di esso, lo schermo, le ha sempre riversate in commedia, in un lungo film di se stesso tanto terribile quanto esilarante.
Ed ecco anche Wally, ovvero l’attore protagonista Wallace Shawn, volto alleniano di un’altra epoca, che sembra uscito da un lacerto invecchiato di Radio Days: è lui Mort Rifkin e il festival è quello di San Sebastian. L’ex professore di cinema vi arriva con la moglie Sue (Gina Gershon), ufficio stampa di un regista impegnato, Philippe (Louis Garrel), luogo comune dell’intellettuale francese borioso e ridicolo, quindi irresistibile, che col suo film vuole addirittura suggerire “la pace in Medio Oriente”. Se la moglie di Rifkin viene sedotta ovviamente da Philippe, per lui la materia dei sogni è Elena Anaya, che qui abita la pelle di una dottoressa spagnola: visita Mort per i suoi disturbi e scopre di avere gli stessi gusti. Inutile dire che Allen trova l’ennesimo alter ego in Wallace Shawn, anche se non precisamente, non esattamente: Wallace ha 77 anni e Woody 85, ma il protagonista e il regista rivendicano l’appartenenza allo stesso cinema classico, quello di Bergman e Fellini, citati e riscritti per l'ennesima volta, con il moto centripeto di Rifkin nel recinto festivaliero che è la sua stazione termale. I riferimenti appartengono a un mondo talmente passato, sono così già visti che fanno quasi tenerezza, anzi senza quasi: il dinosauro Allen è in grado di parlare solo di sé con onestà, perché non c’è nulla di più onesto delle proprie ossessioni. È anche per questo che la storia tra Rifkin e la bella Jo non si può concretizzare: attiene al mondo delle idee, non ricade mai nel concreto, perché parliamoci chiaro, non basta un gusto affine per conquistare una donna con oltre trent’anni di meno, l’amore del “vecchietto” Rifkin/Allen dunque non è pensabile. Elena Anaya resta una chimera.
«Non ho mai fatto capolavori», ripete Allen nelle ultime interviste. A prescindere dall’opportunità di concordare o meno - la prima è difficile -, il punto della questione diventa allora la modestia. Il drammaturgo Rafael Spregelburd l’ha inserita nella sua Eptalogia sui nuovi peccati capitali, nella pièce La modestia (appunto), indicandola come “peccato” che avvolge i quattro personaggi sulla scena in una scala che va dal dramma al paradosso. Uno di loro racconta di una straordinaria vincita al casinò, lasciata interamente al croupier: «L’ho fatto per modestia», dice. La modestia è il peccato di Woody Allen? No, piuttosto è la sua strada per il riconoscimento della piccolezza dell’uomo nel mondo e, soprattutto, davanti alla morte. Con la nera signora già danzava in Amore e guerra, materializzando la pittura medievale, consapevole da quarantenne che la Totentanz prima o poi tocca a tutti. Torna a giocare con lei in Rifkin's Festival, a scacchi naturalmente: e trova il coraggio di scherzare con la morte anche oggi nella senilità, mentre si avvicina l’incontro definitivo, con la figura di Christoph Waltz in parodia di Max von Sydow che impartisce ovvi consigli alimentari (per vivere molto bisogna mangiare le verdure).
Il colpo di scena più sorprendente di questo Rifkin's Festival sta infatti proprio nel destino di Rifkin, che si chiama Mort ma non muore: perde la moglie, non avrà l’amante, va verso l’imponderabile eppure non è alla rovina, anzi ha raccontato la sua storia e si è “liberato”, non ha altro da dire, può lanciare uno sguardo al futuro. D’altronde la vita è senza significato, ma non vuota: si può riempire con cinquanta film, per esempio, oppure con un tramonto a San Sebastian di Vittorio Storaro, frammenti di cinema grande in un film più piccolo. Come Woody Allen è un piccolo uomo anziano davanti al destino, che però non si arrende: la sua modestia è il riconoscimento di sé al tempo della sopravvalutazione, l'auto-limitazione nell'era del volo pindarico. Ma pur sempre dentro un festival, ovvero dentro le sue battute e visioni, quindi dentro il cinema. Rifkin’s Festival è un film “modesto” che sa di esserlo e reca una dote inestimabile: si presenta alla morte col sorriso. E alla fine la rimanda. Allen scrive in immagine i versi di Georges Brassens, che chiedeva di essere sepolto sulla spiaggia di Sète: «Mi insegue con zelo imbecille la Morte / Perché non mi ha mai perdonato / Di averle piantato dei fiori nei buchi del naso».