Cold Skin
Muovendosi tra horror, avventura e letteratura, il film diretto da Gens trova un suo spazio attraverso diversi influssi derivativi grazie alla passione per il suo messaggio.
Assediato dalla tensione dell’horror, irrobustito dallo spirito di avventura e gonfiato da un respiro letterario avvincente, generoso nelle spunti metaforici e nelle ambizioni riflessive, Cold Skin si rivela un particolare prodotto simbiotico, un amalgama forte di una personalità tanto netta quanto variegata.
Il film di Xavier Gens nasce da una composizione inusuale di elementi molto contrastanti tra loro, che portano a una stratificazione dei molteplici livelli di lettura. Un oggetto di forme strane, scolpito da tre caratteristiche fondamentali (le sopra citate influenze di genere: horror, avventura, dimensione letteraria) cui corrispondono altrettanti percorsi tematici, diversi tra loro ma capaci di coordinarsi e di incontrarsi, mischiarsi e sovrapporsi. Il risultato offre squarci interessanti e subito dopo momenti di incompatibilità greve e involuta: nel primo caso incroci immaginifici tra le fascinazioni della narrativa d’avventura e i brividi di una letteratura dell’orrore suggestionata dalla metafisica; nel secondo un ruolo ingombrante e mal gestito di una voice over d’impianto letterario impantanata nella formulazione di metafore e poetismi.
Non è difficile perdonare al film certe ingenuità (alcune anche comiche) a fronte di buone intuizioni, come quella di incorniciare le linee tematiche dentro a metafore visive avvolgenti, stranamente vive e attraenti malgrado il forte impatto formale di una palette cromatica singola e respingente (l’azzurro acciaio). Sono numerosi inoltre i momenti in cui la narrazione interrompe il ritmo sostenuto del film d’avventura, negando le normali regole di movimento del genere, attraverso il raccoglimento in posizioni statiche, quasi di riflessione esistenziale sulla propria natura contraddittoria. Come sono frequenti i momenti in cui, proprio grazie a questo fermarsi, le tematiche chiuse nella morsa delle regole del genere vanno a fuoco senza didascalismi inutili, brillando con decisione al centro dello schermo e oscurando gli inciampi, valorizzando così la forza dei messaggi e la potenza di una narrativa spesa in favore della riflessione.
Il film, tratto dal romanzo omonimo scritto da Albert Sánchez Piñol, vanta più elementi positivi che negativi e gode di un bilancio che a posteriori si livella sul buono, ottenuto da una storia a suo modo appassionante, incentrata sulla diversità, sulla natura dell’uomo, sul potere della comprensione e sulla labilità dell’identità di fronte ai misteri della natura. Sono i contenuti chiusi a guscio nella profondità infatti a rendere Cold Skin qualcosa che vuole essere un passo avanti all’intrattenimento convenzionale, qualcosa in grado di raggiungere lo spettro ampio della narrativa di genere intelligente, qualcosa capace di prendere in ostaggio l’attenzione e intanto solleticare il pensiero utilizzando tutti i mezzi disponibili (tra cui anche un budget di certo non generoso): con creatività a intermittenza forse, grande dose di elementi derivativi e alcune fragilità costitutive, ma anche con passione reverenziale, amore per l’artigianato effettistico e interesse nel racconto.