Speciale MUBI / Un couteau dans le cœur

di Yann Gonzalez

Ambientato nell’industria cinematografica porno anni Settanta, tra Friedkin e De Palma, l'horror di Gonzalez definisce una fenomenologia dell'oscuro (e del sesso) intorno alle vicissitudini della prima produttrice donna di film hard.

recensione film un couteau dans le coeur Gonzales

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

La scoperta del cinema di Yann Gonzalez ha coinciso con un periodo particolare della mia formazione: l’avvicinamento a un pensiero politico che riguarda il modo in cui oggi siamo portati a ripensare il valore dell’identità, del corpo, dei nodi intricati della sessualità. Ho guardato alle corrispondenze semantiche. Al respiro universale di certe cose che leggevo in saggi accademici o romanzi e a come riuscissero a riguardare in maniera così chiara anche il mio stare al mondo. Tutto non può che avere origine dal corpo e dalla percezione fisica: materica. La madeleine di Proust, il giovane Torless e il corpo che cambia, le inquietudini di Ernesto, La vita interiore di Desideria, la non normatività di Pasolini, i desideri mediocri di Siti; il tentativo è sempre stato quello di trarre una valenza gnoseologica dalla rappresentazione della corporeità e di un desiderio sia erotico che amoroso mai domo, attraverso corpi scissi, modellati, scarnificati, dissolti. Tendenza che oggi sembra essersi intensificata. La proliferazione dei discorsi sul sesso dovuta soprattutto alla mole dei nostri circuiti mediali e tecnologici ha infatti creato una vera e propria “mitologia” della sessualità, come l’hanno acutamente definita Mirko Lino e Silvia Antosa in Sex(t)ualities, ponendo al centro il corpo in tutte le sue ramificazioni, morfologie e sintassi da destrutturare. A manifestarsi è dunque l’eventualità di un’“altra” educazione (sentimentale, intellettuale, culturale?) che abbraccia la possibilità di ridefinirsi in seno a categorie predefinite, date per scontate, considerate astoriche e immodificabili.

E cosa c’è di più politico e urgente, assolutamente contemporaneo, di un discorso che guarda alla creazione di uno spazio estetico, cinematografico, in questo caso, sismico in cui poter rivedere, se non addirittura smontare e rimontare, canoni ormai consolidati? Come ha già scritto Saverio Felice parlando di Racconti immorali di Borowczyk – suoi epigoni sono Gonzalez, Bertrand Mandico o Poggi e Vinel, tutti cineasti e cineaste dell’eccentrico, del sogno, di un “nuovo cinema queer – la riflessione sul genere e sulla sessualità è al centro del nostro presente e non si può prescindere da una rappresentazione che ne contempli un ripensamento, una re-immaginazione. Ce l’ha dimostrato magnificamente Mandico nel finale di Les garçons sauvages e nella – voluta – incompiutezza del favolistico percorso di transizione di uno dei personaggi: uomo, donna, e infine queer. Né l’uno né l’altra. Il corpo come corpo-politico dove poter smantellare relazioni sessuali e identitarie normativizzate. E arriviamo finalmente a Un couteau dans le coeur o al cosiddetto cinema infiammato, che sonda i desideri, le emozioni, i sessi e generi provando a rimuovere tutti quei sigilli che la società imprime sul corpo, stando a quanto sostenuto da Gonzalez, Mandico e co. nel loro manifesto, Flame, apparso sui Cahiers du cinéma.

coteau

In Un couteau dans le coeur l’immaginario queer non è mai esplicitamente assunto a vessillo politico né rimanda a un’appartenenza verso una sola ed esclusiva comunità, e se c’è un film che più mi ricorda l’operazione compiuta da Gonzalez è proprio Cruising di William Friedkin, con cui il regista condivide tra l’altro un determinato universo figurativo e stilistico. Il microcosmo fluttuante e dai confini porosi e malleabili del film di Gonzalez è chiaramente figlio di Friedkin e De Palma (le scene degli omicidi sono quasi identiche), per citarne solo alcuni, in un vorticoso gioco citazionistico mai nascosto anzi esposto e dichiarato. Consapevole che nel discorso culturale contemporaneo nulla si dà in forma pura – per cui ogni esperienza si svolge attraverso una pluralità di generi, codici, stilemi espressivi, in una specie di magma intersemiotico, di intreccio, cioè, dei suddetti canali in cui la componente visuale ha assunto un ruolo preponderante – Gonzalez si appropria infatti di questa materia cinematografica, rendendo sempre, e ironicamente direi, chiarissimo l’artificio. C’è quindi tutto un lavoro sulla forma, sul riuso di un codice estetico e sulla sua decomposizione (vale a dire il carattere più lampante di questa nuova onda di cineasti) e trasmutazione in una dimensione irreale, che è ad ogni modo il riflesso di quella vera, di cui si scandagliano umori e inquietudini. Non a caso ho potuto rivedere il film perché MUBI lo ha inserito in una sezione della sua Videoteca chiamata “Film dentro i film”.

Ma Un couteau dans le coeur è soprattutto un film sull’ossessione. Anzitutto per la pellicola, dato che il film è ambientato quasi interamente in uno studio cinematografico di film porno durante gli anni Settanta, considerando poi l’indimenticabile sequenza finale in cui il blow-up sul personaggio di Lois (Kate Moran) diviene rivelatore di verità, di amore. C’è poi Fassbinder, nell’autopsia dell’ossessione amorosa: Lois e l’ex compagna Anne (Vanessa Paradis) non possono non ricalcare Petra Von Kant e Marlene, il suo oggetto del desiderio, specie per come il loro rapporto si deteriora nella stessa assolutistica volontà di possesso. Passare dunque dalle parti del ricordo amoroso e cinematografico (ma anche letterario): si potrebbe davvero continuare all’infinito.
Nel film infine il discorso sul genere e sul corpo non è tematizzato o racchiuso in unico codice e diventa politico pur non avendo l’ambizione di esserlo. Apre ed esplora gli spazi del desiderio, li amplifica favorendo un’identificazione immediata, scindibile da qualsivoglia genere, classe, etnia di appartenenza. Un codice del corpo che continuerà a essere scritto e riscritto. Il cinema diventa ancora una volta luogo esemplare e paradigmatico, dove poter circoscrivere un possibile “noi” alternativo a una logica e narrazione ormai radicate. Ma passibili di rinnovo, ri-creazione, come dicevamo all’inizio. Gonzalez definisce senza censure una fenomenologia dell’oscuro e della trasgressione, delle (nuove) forme d’identità e del bisogno di appartenersi e ritrovarsi nel desiderio oltre gli schermi. Di rinascere davanti a essi. Tornando, come – spero – vedrete, sempre in una sala buia.

Autore: Elvira Del Guercio
Pubblicato il 27/07/2020
Francia, Messico, Svizzera 2018
Regia: Yann Gonzalez
Durata: 110 minuti

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