"So cosa hai fatto" - Intervista a Pier Maria Bocchi

Un libro che aspettavamo: per il coraggio di dare del tu al cinema e al genere, per l'efficacia della sua mappatura, per il fuoco di fila di spunti, suggestioni, esche di pensiero. Simone Rossi intervista per noi l'autore del saggio horror del momento, Pier Maria Bocchi.

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So cosa hai fatto. Scenari, pratiche e sentimenti dell'horror moderno esce lo scorso settembre per i tipi di Edizioni Lindau. Da quel momento Pier Maria Bocchi lo va presentando in tour in tutta Italia e intanto si susseguono le ristampe. Insomma, un clamoroso successo editoriale. «Un libro che mi aspettava» ha detto lui. Un libro che aspettavamo evidentemente anche tutti noi. E siccome le passioni – quelle belle, quelle sane - vanno alimentate, ho pensato di intervistare Pier Maria nel tentativo di espandere ulteriormente il discorso attorno a un genere, l'horror, che «ascolta sempre la realtà: nei casi migliori la ricostruisce, la combatte, le risponde a tono; nei casi peggiori, la lusinga».

Ciao Pier Maria. Come una rockstar sei in tour da mesi col tuo libro. Ci sono stati incontri che hanno lasciato un segno particolare?
Ti confesso che l'incontro fatto a Bologna alla Libreria di Cinema Teatro e Musica è stato abbastanza toccante. La libreria stava chiudendo dopo 35 anni di attività, e il mio è stato l'ultimo incontro. Il proprietario è un caro amico di sempre e l'esperienza mi ha emotivamente coinvolto.

Come scrivi nell'introduzione il titolo del libro ha un significato duplice: «volutamente confidenziale, che ha l'ambizione di rivolgersi tanto al genere di riferimento quanto a me». Subito dopo parlando di tuo marito Luca Malavasi spieghi come ami l'horror, ma non riesca a vederlo da solo per paura degli incubi. Per te, invece, la visione horror è un fatto privato o collettivo? E in tempi di conflitto piattaforma-sala, possiamo parlare di un genere che non si è mai posto il problema dell'esperienza individuale?
Partendo da Luca sì, è proprio così: non riesce a guardare l'horror da solo. Vero anche che è il genere che più di tutti non si è mai posto il problema della visione in solitaria e magari anche isolata. Ma ci sono delle eccezioni abbastanza importanti. Una delle quali analizzo nel libro, su cui torno più volte, e cioè la visione collettiva nei festival. Prendiamo Bruxelles. Il primo anno al BIFFF lo ricordo come uno shock perché l'horror per me era davvero una questione privata, anche in senso spettatoriale, di pura fruizione. Anzi, mi sono sempre volutamente allontanato dalla visione di gruppo nel timore che gli amici potessero rovinarmi la visione. Accadeva solo con l'horror, con gli amici guardavo tutto il resto. Mi prendeva un timore irrazionale di vedere rovinato il godimento e il rapporto esclusivo e ossessivo che da sempre intrattengo col genere. Al BIFFF mi trovai immerso in una sala di mostruosi caciaroni che da quando si spegnevano le luci fino a che non tornavano, seguivano una sorta di rituale dialettico, con battute programmate che si rilanciavano, con esclamazioni e urla ad hoc: per me fu davvero sconcertante e pensai che non avrei potuto vedere i film in quelle condizioni, che mi sarei rifugiato nelle semi-deserte proiezioni stampa. Poi a poco a poco ho capito e un po' mi sono fatto trascinare dalla corrente, benché le battute fossero quasi tutte in fiammingo e io non ci capissi una mazza! Ho cercato di adeguarmi al flusso di questa cosa estremamente gioiosa e a suo modo estremamente seria da condividere. Capii che per loro era davvero una religione. Così ho cominciato ad apprezzarla.

E oggi? Ti dividi tra sala e privato oppure no?
Devo dire che più invecchio più mi sento a mio agio quando guardo i film da solo. Anche alle anteprime stampa a Milano, che per noi sono la manna, ammetto una costante, ma inesorabile tendenza all'abbandono. Perché ho sempre detestato, anche ai festival, questa sorta di ansia del dover esprimere il proprio parere appena finiscono i titoli di coda. È una cosa che più vado avanti e più fatico ad accettare. A volte me ne scappo proprio, sarò un po' cafone, ma proprio non riesco. Non è una questione di sacralità del proprio giudizio, ma voglio che il film mi lavori dentro. Ci sono amici e colleghi che sono l'esatto contrario e io intanto penso “no, state zitti per favore!”. La verità è che io adoro guardare i film da solo, andare al cinema da solo. In questo senso i festival sono per me deleteri perché lì non scappi dall'opinione freschissima. Appena finisce un film ti rimetti in fila con qualcuno che era in sala con te un momento prima e sei in trappola...

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Torniamo alle origini. C'è stata una persona che ti ha avviato alla visione del cinema horror o hai fatto tutto da solo?
No, non c'è stata una persona. Sono state mie visioni infantili, ero molto piccolo, avrò avuto otto-nove anni. Mi ricordo che ero a casa di mia nonna e di una rassegna di cinema italiano dell'orrore che passava in Rai, credo in prima serata. Ho nitidamente in testa almeno tre titoli: La casa dalle finestre che ridono, e poi due film di Giorgio Ferroni, Il mulino delle donne di pietra e La notte dei diavoli. Mi fecero una paura pazzesca, ma credo che sia nata lì questa sorta di seduzione che l'horror ha esercitato su di me sempre. Un fascino che poi è diventato una vera ossessione per Dario Argento: dalle medie e per un po' di tempo lo identificai come il più grande regista del mondo. Raccoglievo e ritagliavo tutte le schedine che comparivano su Tv Sorrisi e Canzoni dei film trasmessi, li incollavo su un quadernetto e davo i miei giudizi (del tipo, per dire: “Tenebre: a me Giuliano Gemma ha sempre fatto schifo però qui viene trafitto e allora...”) e naturalmente mettevo le stelline. Poi negli anni Ottanta sono passato alla mia passione più travolgente che è stata per i gore, per lo splatter, per il corpo esploso e sbriciolato. Io sono figlio degli anni Ottanta, mi sono formato lì come cinefilo e come uomo, direi. Li ho vissuti come anni che mi hanno costruito la testa e anche lo sguardo. No, non esiste una persona che mi ha instradato, è stata una cosa da puro autodidatta.

E poi c'era la bellezza di andare a caccia della visione desiderata. Oggi che esistono le piattaforme ed enormi archivi sono a nostra disposizione un giovane può appassionarsi allo stesso modo? Si può ancora andare incontro a una scoperta?
Non cado nella trappola di dire che si stava meglio quando si stava peggio. Ho quasi 54 anni e potrei abbandonarmi alla nostalgia e alla malinconia di quando la ricerca era davvero senza fine. I sacri graal erano infiniti, ma dovevi sbatterti per cercarli e trovarli. Più raro era l'oggetto e più riuscire ad acciuffarlo dava valore all'opera, ancor prima di vederla. Oggi sì, è tutto diverso. Credo però che chi fa il mestiere di critico, di studioso delle immagini (di quello che ci bombarda in modo parcellizzato lo sguardo), non può permettersi di vivere in un eremo isolato e chiudersi fuori dalla contemporaneità. Troppo facile mettersi seduti a guardare film di trenta o quarant'anni fa e dire: che meraviglia quel cinema! Io voglio cercare di capire le cose che mi circondano oggi e che non mi appartengono e alle quali magari io non riesco ad adeguarmi per ragioni di gusto, o puramente anagrafiche: come posso sintonizzarmi sui desideri e i gusti di un diciottenne. Nel libro provo a farlo con la generazione Z. Un ragazzo o una ragazza che improvvisamente scopre di amare l'horror lo fa in modo casuale come è capitato a noi o c'è qualcosa che li stimola e li eccita a tal punto da capire in anticipo che hanno un determinato gusto? Non lo so. Ma mi piace rifletterci sopra: il come, il perché, il modo. Capire queste dinamiche aiuta a comprendere i nuovi scenari culturali. Non credo che possiamo permetterci di farne a meno.

Quando leggo i tuoi articoli e le tue recensioni trovo sempre un discrimine: il fatto che un film sappia parlare o meno al nostro presente. Molte delle critiche mosse a The Substance lo hanno accusato di essere puramente citazionista e perciò vuoto e quindi incapace di stare nella contemporaneità...
Francamente un horror più contemporaneo di The Substance faccio fatica a trovarlo. È ovvio che dentro c'è tutto il cinema del passato, e ci mancherebbe altro. Il piacere e il valore è capire come Coralie Fargeat ha elaborato tutto questo con i piedi ben piantati nel presente. Perché quello che si è sottovalutato di questo film è l'idea alla base. Uno spunto lucidissimo: noi siamo solo in quanto immagine. Anzi: io sono, dunque sono un'immagine che è come dire che non solo la nostra identità è un'immagine, ma che addirittura noi esistiamo in questo nostro mondo soltanto se ci percepiamo e consideriamo come immagine. Non credo di arrampicarmi sugli specchi. Credo che per questo The Substance sia molto più di un film sul desiderio della bellezza eterna e così via. Appartiene all'oggi come pochissimi altri horror. Basta guardare come usa lo stile, in modo così spesso, voluminoso, eppure sta parlando di immagini, di qualcosa di assolutamente impalpabile. Un film davvero importante.

Altro titolo, altra corsa: Oddity dell'irlandese Damian Mc Carthy. So che è uno dei titoli che hai maggiormente apprezzato nel 2024. Guardandolo mi ha stimolato un discorso sull'ambientazione. Lo spazio fisico dell'horror moderno qual è? È cambiato rispetto al passato?
Oddity mi ha molto sorpreso perché è un film che scivola sempre via dal genere al quale sembra appartenere: parte come un horror, poi diventa un neo-noir, poi torna horror. Scarta continuamente. Mi ha molto spiazzato in questo senso e l'ho trovato di un'intelligenza particolarmente elegante. Rispetto agli spazi dell'horror attuale è vero che The Substance e Oddity vivono un po' agli estremi classici: da un lato la metropoli, dall'altro la provincia. Può anche accadere che medesimi spazi siano utilizzati in contrasto. Prendiamo It follows e il suo formato scope: vediamo che lì il male non sembra nascondersi come faceva Michael Myers in Halloween dietro le siepi e nelle ombre, ma improvvisamente lo vedi in piena luce ed è qualcosa di estremamente comune, può essere un passante sullo sfondo, in prospettiva lunghissima che infine ti accorgi, punta esattamente te. Nei due casi siamo nella medesima provincia sonnolenta e sonnacchiosa, ma tutto è narrativizzato diversamente. Poi c'è da dire che l'horror torna (qui penso alla saga di Terrifier) pure ai luoghi simbolo degli slasher degli anni Ottanta: le scuole, le docce, le palestre, tutti spazi che sembravano spariti con gli anni Novanta e film come Scream o The Faculty. È tornato l'appartamento dove il singolo e la sua psicologia vengono sbriciolati e piegati. The Substance è nella metropoli, ma quasi tutto si svolge dentro l'abitazione di Demi Moore. Pare esserci una sola strada, un solo boulevard da percorrere per reperire il siero. Non direi che l'horror pratichi spazi nuovi, direi invece che resistono tutti gli spazi che abbiamo imparato ad amare nel corso del tempo.

follows

Hai citato It Follows. Un film sul contagio del male che gli somiglia è Smile 2, un sequel che prende strade diverse rispetto all'originale e dialoga con il Trap di Shyamalan.
Smile 2 mi ha sorpreso. E vedendolo anche io ho pensato a Trap. Naturalmente da un'altra prospettiva – direi ribaltata - che è quella della psicologia contorta, piegata e svuotata come un guanto della protagonista. Ma per entrambi i film vale lo scenario: quello della folla e della messa in pubblico, in esposizione, in esibizione. La cosa più sorprendente in Smile 2 è l'utilizzo che si fa del mestiere della protagonista (cantante e ballerina) e dell'intero entourage che le ruota attorno. Il corpo di ballo usato come strumento per creare suspense e paura. Mi riferisco alla sequenza nell'appartamento di lei con i ballerini che letteralmente coreografano un agguato. Per me è la scena horror dell'anno. Intelligente e pertinente al racconto: un coro greco che intrappola la prima ballerina; una sorta di performance spaventosa. L'intelligenza del film è usare gli strumenti della “trama” per inquietare e costruire l'orrore. E parliamo di un film che è tutt'altro che d'autore, ma piuttosto il prodotto di una major. Un horror che riprende il suo giusto scettro di riflessione sulla realtà anche lontano dalla mano ingombrante di un autore.

Già che ci siamo spendiamo due parole pure su Oz Perkins e Longlegs...
Secondo me è più fumo che arrosto. A conti fatti, a cercare di cavarci fuori qualcosa, mi pare un discreto filmetto. Fondamentalmente non mi dice niente, o meglio, me lo dice in un modo che se all'inizio mi incuriosisce, a lungo andare mi infastidisce con lo spiegone degli ultimi venti minuti che tradisce – ed è come farsi lo sgambetto da solo – un po' l'assunto stesso di un film che dovrebbe giocare sul non detto, sul non spiegato, sull'allusivo, sulle ipotesi. Invece il regista ci fa rivedere tutto da capo, mettendo ogni puntino sulle i. Sto finendo pure per cambiare opinione su Oz Perkins perché il suo primo film – che ho anche rivisto per il libro – February mi aveva convinto perché lì invece tutto quel che è ipotizzato resta tale e alla fine resti con tanti dubbi e un pugno di mosche in mano. Devo dire che a lungo andare questo girare intorno a un modo di raccontare sospeso, astratto, mi ha un po' stufato. Di certo evito di fare quello che han fatto in tanti: parlare di un nuovo Silenzio degli innocenti. Stesso stile cartesiano di Jonathan Demme, uguale proprio (ride).

Nel tuo libro dici che in Italia l'horror è finito molto tempo fa. Precisamente con La chiesa (1989), «titolo che più di tutti sintetizza e conduce al punto di non ritorno le idee tematiche ed estetiche di un mercato giunto (con piena consapevolezza) al capolinea». Dopo oltre trent'anni come siamo messi?
Siamo messi malissimo. E mi verrebbe da risponderti che non è neanche colpa nostra. È davvero lo scenario che è cambiato nel profondo. Non abbiamo più i presupposti di mercato, estetici, culturali per fondare una nuova onda horror. Pensa solo alla Francia, per fare un paragone all'opposto. Purtroppo come discorso culturale il nostro cinema horror è morto nei primissimi anni novanta. Mi fanno ridere quelli che appena esce Piove o The Well si esaltano e dichiarano che allora “si può ancora fare”. Non bastano un titolo, due, cinque. Mi fanno ridere. E infatti cosa fa The Well: rivanga il passato, vestendo un puro abito da soffitta, bric-à-brac stantio, senza nessuna idea contemporanea, senza nessun appiglio al mondo odierno. Perché appunto non ci sono idee se non riferite ai maestri del passato. Recuperare una tradizione è inutile. Non possiamo più farlo. E se mi chiedi se le cose possono cambiare ti dico che non lo so. Sono convinto di questo però: non vedo nuovi sguardi interessanti nel nostro Paese.

In sala intanto è tornato il mito del vampiro. Telegrafico. Nosferatu sì o Nosferatu no?
Per me è assolutamente no. E devo dire che mi ha veramente quasi fatto dormire. L'ho trovato estremamente soporifero. Di una noia sovrana.

In ultimo parliamo di futuro, di aspettative. C'è un/una regista del quale ti manca il fatto che non stia uscendo un suo film, adesso, in questo momento?
Bella domanda. Visto che siamo in tema di prestige horror devo dire che se penso a come mi ha folgorato Nope sono tanto curioso di vedere cosa può fare “dopo” Jordan Peele. Perché sai, ha alzato così tanto l'asticella, con un film che contiene 120 anni di storia delle immagini... Mi dico: come può fare un nuovo film altrettanto importante? Nope è così grosso e così tanto, e per tanti è così troppo, che sono qui alla finestra. E poi penso anche a David Robert Mitchell. È notizia di circa un anno fa che avrebbe dato un seguito a It follows. L'idea di un possibile seguito mi stimola e spaventa, ma dopo dieci anni le cose sono assai cambiate e il progetto potrebbe avere un senso. Di certo attendo con più impazienza il ritorno di questi due che il prossimo film di Robert Eggers.

Autore: Simone Rossi
Pubblicato il 24/01/2025

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