Hanna - La serie
Dal film di Joe Wright, Amazon Prime racconta il coming of age di un’adolescente speciale, come tutte le altre.
C’erano due motivi, tra tutti, per guardare con interesse la serie Hanna, disponibile su Amazon Prime Video dal 3 febbraio. Il primo era l’affezione verso l’universo narrativo di partenza, non particolarmente originale (gli esperimenti su ragazzi a scopo militare non sono certo una novità) ma messo in scena con la solita (e, diciamocelo, finora sottovalutata) maestria da Joe Wright per il grande schermo, nel 2011.
Il secondo era rivedere insieme, per la prima volta dai tempi di The Killing, Joel Kinnaman e Mireille Enos, le cui singole carriere, fuori dalla serie creata da Veena Sud, non sono mai state all’altezza (al cinema Kinnaman ha partecipato a Suicide Squad ed è stato il nuovo Robocop, sul piccolo schermo ha incarnato il protagonista di Altered Carbon oltre a fare da ultimo avversario politico di Frank Underwood in House of Cards; alla Enos è andata decisamente peggio, col bruttino Sabotage di David Ayer più un paio di pellicole rimaste inedite in Italia).
C’è da dire, a proposito del primo dei motivi, che la prudenza del creatore David Farr (prudenza del tutto motivata sia chiaro) nei confronti di quanti non abbiano visto il film del 2011 si rivela, al contrario, per chi quella pellicola l’ha vista e amata, un mezzo boomerang, conferendo ai primi due episodi della serie un che di pleonastico e un’allure di dejà-vu che mette a rischio la prosecuzione. Fortunatamente, una volta esaurita la pratica, quell’universo viene espanso sicché la serie riesce ad approfondire le personalità di tutti e tre i protagonisti, che svestono i panni degli attanti per trasformarsi davanti ai nostri occhi in persone a tutto tondo. La Marissa Wiegler della Enos, rispetto a quella algida e spietata disegnata da Cate Blanchett, è una donna ligia ma tormentata da un senso di colpa che mal si concilia col desiderio di maternità; più o meno la stessa cosa si può dire di Erik Heller, sebbene anche quello di Eric Bana lasciasse intravedere, per motivi narrativi, barlumi di amore paterno, per quanto surrogato. Il maggior sviluppo è ovviamente (e fortunatamente) riservato ad Hanna, che nel film era Saoirse Ronan e qui è, senza sfigurare rispetto alla prima, Esme Creed-Miles (figlia di Samantha Morton e di Charlie Creed-Miles, il Billy Kimber di Peaky Blinders). L’incontro con la famiglia di turisti si sviluppa ulteriormente ed è uno snodo importante nella dinamica della scoperta di sé intrapresa dalla ragazza.
Sia chiaro: Hanna non aggiunge nulla di nuovo al panorama della serialità, ma è un prodotto fatto con cura e convinzione, recitato decisamente bene. E qui rientra in gioco il secondo dei motivi: l’alchimia tra Kinnaman e Enos è palpabile e insieme funzionano come nessuno dei due, singolarmente, fa. Le otto puntate sono dirette da quattro registi tra cui Sarah Adina Smith (sua la regia di Buster's Mal Heart del 2017 con Rami Malek) e Anders Engström, finlandese giunto negli Usa dopo aver diretto, tra le altre cose, episodi di Wallander e che ha al suo attivo anche diverse puntate di Taboo.