Sciame (Swarm)
L’ossessione patologica del fandom tossico tra razzismo e divismo, nella nuova serie di Janine Nabers e Donald Glover, realizzata per Prime Video.
Sciame (Swarm) è la storia di Dre e Marissa, due sorelle che condividono tutto: un appartamento, il lavoro, la passione per la popstar Ni’jah, due vite intrecciate che solo la morte può slegare. Le due si riflettono l’una nell’altra, in un costante gioco di specchi e dipendenza reciproca. L’improvvisa e violenta rottura del rapporto simbiotico porta Dre a perdere ogni punto di riferimento e lasciarsi trascinare in un vortice di risentimento, fino a intraprendere un viaggio negli abissi della mente e degli Stati Uniti. Parte così un crudo e cruento pellegrinaggio che la porta ad avvicinarsi sempre più pericolosamente a Ni’jah.
Uscita a pochi mesi dalla conclusione della stagione finale di Atlanta, la nuova serie di Donald Glover e Janine Nabers mette in scena un processo di riattivazione delle tematiche care agli autori, a partire da un discorso razziale che impregna ogni singola fibra della narrazione, grondante sangue e abbandono. L’impianto su cui è costruita Swarm è dolorosamente reale, e non solo perché il personaggio di Ni’jah è apertamente ispirato a Beyoncé, ma soprattutto perché diventa metafora di un’America nera dimenticata, trascurata, marginalizzata. Il junk food si accompagna alla morte, una fame insaziabile di hamburger e di sangue, esemplificazione di una società consumistica che lascia ai neri gli scarti, finanche alimentari. Ma Dre è anche, e soprattutto, una donna nera abbandonata dalla famiglia e dal mondo, che diventa il contraltare di Ni’jah, una figura mitologica da venerare: quella che ce l’ha fatta, che ha raggiunto il successo e che viene percepita come simbolo di un’affrancatura dalle catene razziali. La popstar è costituita della materia impalpabile di cui sono fatti i sogni, un personaggio evanescente che attrae la morbosa devozione della protagonista, pronta a tutto per difendere il proprio idolo.
Riflessione pungente e disincantata sia dello stardom che del fandom, e delle inique relazioni che li mettono in contatto, Swarm è un racconto acuto e intelligente sulle persone lasciate indietro, sulla precarietà sociale che si trasforma spesso anche in precarietà mentale: uno dei discorsi su cui la serie maggiormente insiste riguarda la consapevolezza, dura da accettare, che tutti sono colpevoli e mette all’erta sulla pericolosità insidiosa dell’autoassoluzione. Il contesto disumanizzante in cui vivono i personaggi non lascia loro scampo, riducendoli a delle cause perse, dei burattini nelle mani di un destino perverso che li muove a proprio piacimento, sviluppando quella dicotomia, in cui o si è vincenti o si è perdenti, messa in essere dal sistema statunitense e già sottolineata da Donald Glover nel video musicale di This is America, sotto il nome d’arte Childish Gambino: i neri che vengono introdotti nello star system sono anch’essi schiavi di una struttura che li usa per l’intrattenimento del pubblico, moderni giullari che facciano percepire ai bianchi di essere capaci di accettazione e inclusione. Ni’Jah è succube e soggiogata tanto quanto Dre, la cui unica modalità di vita concessa è quella della violenza.
La serie affronta tutto questo attraverso un’osservazione attenta, spietata e cinica, facendo uso di un intreccio di generi felicemente riuscito, che spazia dalla blaxploitation al viaggio on the road, passando per il thriller e il documentario true crime (in un episodio particolarmente efficace). Materia fondativa di Swarm è dunque, sia dal punto di vista testuale che filmico, un discorso metacritico che riflette sulla società dell’immagine e sulle conseguenze crudeli di una narrazione funzionale all’indebolimento degli strati più esclusi, quella dell’American Dream, tanto vagheggiato quanto irraggiungibile.
Sono le donne nere a pagare il prezzo più alto e più ingiusto, scivolando tra le crepe di una struttura prevaricante che le condanna all’oblio e all’indifferenza, donne costrette a confrontarsi quotidianamente con disparità economiche, di genere e sociali. Ma Dre si ribella a questo sistema precostituito, sceglie (anche se inconsapevolmente) di compiere autonomamente il suo destino, fino alle estreme conseguenze. La malattia mentale la porta ad abbandonarsi alla sua ferocia, alla sua voglia di riscatto; ormai incapace di distinguere tra realtà e immaginazione, Dre asseconda le sue pulsioni più istintive, abbracciando la sua instabile psiche di cui nessuno ha saputo prendersi cura, non i suoi genitori affidatari, non il sistema, non la rete umana che la avvolgeva, nessuno se non la sorella Marissa, che rimane un soggetto fantasmatico che pervade tutta la storia.
Nabers e Glover, dopo il successo di Atlanta, si confermano autori capaci di creare una narrazione visiva stilisticamente riconoscibile coadiuvata con sapienza da un impianto in cui si mescolano humor e drama: non mancano le risate amare, ma anche l’ineluttabile disillusione che permea una serie profondamente politica.