Amazing Stories
Apple Tv+ produce il remake della serie anni '80 cercando di riaccendere la meraviglia e il fantastico, ma il nome di Spielberg in produzione non basta.
Storie pazzesche, miti d’oggi. C’è una morale del segno, scriveva Roland Barthes, e la morale del segno è che «non dovrebbe darsi che in due forme estreme: o francamente intellettuale […]; o profondamente radicato, in qualche modo reinventato ogni volta, aprentesi su un aspetto interno e segreto, segnale di un momento e non più di un concetto». Tra le due categorie citate, la Spielberg face sembra appartenere alla seconda: il volto della meraviglia è un segno aconcettuale generato dall’asimmetria, viscerale eppure sempre diverso, una finestra sul segreto. Nasce dalla commistione di gioia e terrore verso il non-limite del fuori campo, rimbalza in uno shock di ritorno sui connotati di chi guarda, e firma un cortocircuito (faccia a faccia) di partecipazione illimitata. Non è un caso che tutti gli episodi del remake di Amazing Stories (la serie originale dell’1985 a sua volta ispirata alla rivista omonima del 1926) cerchino continuamente questo segno che sta tra il potente e il profondo, dice tutto in pochi termini ed è perfettamente riconducibile a uno stato di estasi filmica.
La serie prodotta da Apple TV+e sviluppata da Kitsise Horowitz (oltre a Spielberg, in veste di executive producer) è proprio strutturata in virtù di questa ricerca. Tutti i suoi episodi si sviluppano dall’incontro/scontro tra individui normali e eventi straordinari per innescare un senso di meraviglia. Ci sono viaggi nel tempo passato attraverso un barometro, permanenze extra corporali dopo la morte, superpoteri da fumetti, presenze extraterrestri e varchi spazio-temporali creati dal destino. Le puntate si equivalgono per conformazione narrativa, raccontano la pressione di un fatto fantastico e inspiegabile sul profilo limitato di individui in difficoltà, in cerca di se stessi, per assenza di un posto nel mondo, incapacità di accettarsi o di superare la perdita. Girano intorno alla descrizione di un impatto che cambia la persona: l’impatto dell’illimitato e del misterioso, che fuor di metafora, è il fantasma più o meno opaco del lutto, della morte. I personaggi si confrontano contro l’inspiegabile natura del mortale sotto la forma del meraviglioso e riconfigurano la propria vita una volta toccati da quello che hanno visto nel fuori campo extra ordinario.
Tuttavia, nella serie non compare mai il segno della Spielberg face, o più precisamente, la sua reale forma radicale. Perché nonostante la deposizione di tutte le geometrie per riprogrammarne la riuscita, i cinque episodi usciti finora mancano sempre della fondamentale rappresentazione dell’asimmetria, regola del rapporto tra individuo ed evento fantastico, tra persona e morte, tra spettatore e immagine: l’asimmetria che genera il segno della meraviglia proprio grazie al confronto diretto con qualcosa d’altro di più grande, sconosciuto. In questo nuovo Amazing Stories i personaggi sono messi di fronte all’inspiegabile ma se ne fanno una ragione, e infatti risolvono la loro esperienza nella decifrazione del mistero, spiegando qualsiasi voragine fantastica in virtù di una risoluzione contenta; mentre il fantastico viene interpretato, poi compreso, infine ricondotto a ragione, a spiegazione, la ferita emotiva dell’individuo si ricompone in parallelo non tanto grazie all’accettazione del proprio limite quanto grazie ad una comprensione dell’illimitato.
Questa descrizione del fantastico-mortale tenta quindi di parlare il linguaggio della rivincita della vita su ciò che la nega, di descrivere la risalita vittoriosa dell’umano sul lutto, ma fallisce perché cerca di farlo senza dire davvero della condizione di possibilità della vita: non c’è traccia in Amazing Stories della vera rottura o della morte, della tenebra terrificante che avvolge quando non sembra esserci più speranza e del nulla da cui sorge l’angoscia; non c’è traccia di una porta che si apre e, proprio mostrando la fine e il possibile azzeramento delle cose, risveglia la vita; tutto è attenuato, tutto è a mollo nell’accettabilità anestetica di una riduzione della posta in gioco. Senza la descrizione di ciò che nega la vita, il racconto della risorgenza, il momento di panico stupefacente capace di riordinare la vita e il volto, si annulla e assume il ruolo di un inutile, fasullo esorcismo del dolore che congela in una spiegazione accettabile il senso del segreto e del meraviglioso.
Ecco allora che l’insieme delle immagini di questo progetto è ben descritto dalle parole che seguono quelle già citate in apertura di Barthes e descrivono una terza categoria segnica: «Ma il segno intermedio denuncia uno spettacolo degradato, che teme la semplice verità quanto l’artificio totale». La serie antologica Apple TV+ è proprio intrattenimento degradato a metà tra due intenzioni, catalogo di segni intermedi che non dicono verità e allo stesso tempo non si denunciano come finzione, prodotti per cercare di stampare a tavolino emozioni che altrove nascono da una precisa consapevolezza tra ciò che si può e ciò che non si può raccontare. Le facce che abitano questo remake sono smorzature fasulle e ottengono un risultato ben diverso dai volti generati dall’accettazione dell’incomprensione, dall’incontro originario dell’asimmetria meravigliosa. Non sono volti reali, ma facce interscambiabili, trappole del linguaggio che si vendono per naturali, e invece non motivano e non conoscono la stessa forma di meraviglia spontanea che compone il mondo e ha assunto spesso nelle vite forma concreta anche grazie a Spielberg. La forma di uno schermo più grande di chi guarda.