The Morning Show
La serie più convincente e matura nel pacchetto iniziale di Apple Tv+, un’indagine del mondo giornalistico che pone il #MeToo al centro della narrazione e supera l’eredità sorkiniana nei suoi aspetti più stereotipati e idealizzanti.
La consacrazione del #MeToo come soggetto narrativo è già avvenuta e lo dimostrano le innumerevoli serie che in questi ultimi anni hanno sfruttato l’argomento per confezionare microdrama interni alla trama principale, più o meno coerenti con il percorso di un eroe che è quasi sempre un protagonista maschile che passa attraverso “l’ordalia” di fare i conti con le proprie azioni riprovevoli che tornano alla luce in un clima sociale totalmente cambiato. Due esempi su tutti segnano gli estremi opposti di questa tendenza: la stagione finale di Bojack Horseman, che usa il backlash legato alla morte di Sarah Lynn per certificare l’impossibilità di smarcarsi davvero dalle proprie scelte sbagliate e il recovery come processo fluido, mai diretto; e quella di The Affair, che usa le molestie per dare il colpo di grazia alla mascolinità del personaggio di Noah, mettendone in ridicolo l’inadeguatezza e il senso di onnipotenza.
Ma nessuna serie fino a The Morning Show era stata in grado di usare il #MeToo come fulcro del proprio plot, prendendo così sul serio chi guarda e ciò di cui parla tanto da preoccuparsi di “talk the talk & walk the walk”, coerentemente affidando il look & feel alla regista Mimi Leder e la scrittura a una writers’ room diverse guidata da Jay Carson e Kerry Ehrin. Nella corrispondenza tra soggetto scelto e stile produttivo c’è un livello insolito di onestà intellettuale, che unito alla scaltrezza nel capire la propria audience evita alla serie di cadere nelle strizzate d’occhio pinkwashed e semplificazioni, dirigendola sulla strada della complessità nel mostrare i meccanismi tossici dello spettacolo e delle relazioni di genere.
Per raccontare la televisione però, anche se il codice scelto è quello della satira metatestuale e il discorso è serio (non quindi, una scusa per mettere in campo trame secondarie sulla crisi della mascolinità, ma un’esplorazione di un fenomeno sotterraneo e universale) la confezione non può essere altro che quella codificata da Aaron Sorkin, cantore per eccellenza del dietro le quinte della tv e delle news che The Morning Show omaggia e utilizza con grande senso della misura valorizzandone gli insegnamenti – anche se va detto che Leder, essendo una delle creatrici del look & feel di E.R. – Medici in prima linea, deve pochissimo a Sorkin dal punto di vista dello stile; semmai il contrario. Stile a parte, è nella narrazione corale e nel rispetto per il ruolo culturale dei media che si raccoglie l’eredità sorkiniana, ma riuscendo ad allontanarsi da quella scrittura stereotipata e idealizzante, ormai diventata perfino parodia di sé stessa, per indagare i lati oscuri.
Il punto di vista scelto è quello delle donne, che sperimentano sopraffazione, frustrazione e difficoltà a bilanciare vita e lavoro molto più degli uomini: dunque, The Morning Show non poteva essere una fantasia sorkiniana di efficienza e professionalità, ma diventa una storia di sacrificio e di rinuncia (al sonno, alla vita privata, alla personalità) che trova il suo spazio perfetto negli show del mattino, dall’ambizione di ecumenicità e dal pubblico popolare, che impongono a chi li conduce un’illusoria neutralità che in realtà è solo medietà del punto di vista e mediocrità della prestazione per mantenere una facciata rassicurante e innocua. Un sistema che trasforma le persone in maschere e i rapporti umani in ingranaggi, penalizzandone l’individualità e facendone, col tempo, i più strenui difensori del sistema stesso che li ha fagocitati: perpetuando il proprio ruolo tutti assicurano il funzionamento della macchina, riassorbendo gli shock e gli impatti e facendo quadrato contro il cambiamento. Diventando quindi i primi difensori della propria de-umanizzazione.
Quando l’elemento di caos rappresentato da Bradley Jackson e Cory Ellison entra nel sistema della redazione, è la miccia per far esplodere una tossicità dei rapporti che è intrinseca a quel sistema, che non è quindi in grado di sopravvivere alla propria messa in discussione: crolla qualcuno, mano a mano crollano tutti uno dopo l’altro, perché il meccanismo basato sul reciproco interesse, gli scheletri nell’armadio e la sopraffazione non può resistere a un’aggressione dall’interno basata sulla ricerca della verità, disinteressata o meno.
The Morning Show quando racconta le molestie sul lavoro racconta anche il mondo in senso molto più allargato, racconta la legge del più forte che opprime e poi sacrifica gli elementi più deboli, racconta l’impossibilità di essere sé stesse per le donne in un’ambiente che le vuole necessariamente vittime o complici, racconta in definitiva il nostro presente in cui il sistema patriarcale scricchiola alla messa in discussione dei suoi valori portanti di sopraffazione e soprattutto di reputazione: perché bastano una donna che ha rinunciato ad essere “autorevole” nel sistema e un uomo così ricco da non averne bisogno a dare la spinta per far crollare tutti gli altri.
Alla fine, quello che emerge è l’enorme divario tra la perdita della fama e della posizione di chi abusa a confronto con la perdita di sé e della vita di chi subisce l’abuso, e nonostante la costante ricerca della complessità (che impedisce la semplificazione dei buoni/cattivi o la creazione del “mostro” come devianza) la posizione di The Morning Show è molto chiara e forse per questo la serie non è stata particolarmente amata dalla critica – italiana, perché quella americana è ben differentemente posizionata – e scambiata proprio per quel tipo di favoletta ideologica che sono invece le tanto acclamate serie di Sorkin. Probabilmente perché ancora nel 2020 la scelta di non sottomettersi al sistema suona come una storiella edificante più che come la ragionata, e rischiosa, scelta di campo che è. E probabilmente perché, ancora nel 2020, la perdita della reputazione e della carriera è per tanti uno spauracchio molto più forte del trasformarsi, progressivamente, in automi utili solo a preservare lo status quo.