Love, Death & Robots
La prima serie antologica di animazione di Netflix usa la fantascienza e un formato particolare per analizzare una grande molteplicità di temi, soffrendo di alti e bassi qualitativi.
Love, Death & Robots sorprende, delude e ammalia a differenti gradi, tra ambizioni affascinanti, metodi comunicativi per certi versi inediti, alcuni salti formali impressionanti e difetti evidenti. A livello contenutistico la prima serie antologica di animazione di Netflix si getta all’inseguimento di una missione enorme: raccontare l’umano che incontra l’altro, la divinità tecnologica, il mostro multiforme e incomprensibile, la forma di progresso verso cui è stregato e per cui tenta azioni estreme. Il soggetto (di genere fantascientifico) è quindi quell’aspetto dell’uomo mosso dal sublime terribile che ammalia e gioca coi sensi e penetra nell’universo conosciuto causando un momento di alterità, un germe mutaforma capace di cambiare le prospettive e sfumare le definizioni per disegnare un paesaggio immerso in colorazioni ambigue. La serie lo racconta adottando a livello formale una prospettiva sempre disomogenea, uno sguardo interessato al tutto ed esaltato dalla dialettica della molteplicità, un unico contenitore di storie diverse, idealmente in grado di moltiplicare i punti di vista su un solo argomento tenendo sempre e comunque conto del punto di fuga su cui allineare l’architettura del progetto narrativo.
L’estrema liquidità del formato dell’originale Netflix è sia il risultato che il punto di partenza di questo ragionamento, perché sono le differenti misure brevi delle puntate (da 6 minuti a 17) che caratterizzano questo esperimento antologico (creato da Tim Miller ma prodotto dalla visionarietà di David Fincher, regista che forse più di altri ha trovato nella rivoluzione digitale un palcoscenico per esprimere le proprie teorie) a permettere di misurarsi con un vero e proprio catalogo narrativo da sfogliare e scomporre, esaminare e sviscerare secondo i ritmi di una pluralità diversamente analizzabile: parcellizzando la visione e centellinando gli impulsi narrativi o compattando e unificando gli episodi in un’esperienza di binge watching contratta in poche ore e a un tempo dilatata verso l’infinitudine degli spunti di riflessione, data la natura difforme e composita di ogni segmento. In ogni caso scegliendo una modalità di rapporto con il contenitore tecnologico, una via ragionata di utilizzo e consumo del formato.
È dalla funzionalità della scatola-vettore e dalla convergenza delle ambizioni con i risultati che consegue la riuscita o la disfatta della serie. A posteriori è facile denotare che i risultati non sono completamente esaltanti, solo vittime di un metronomo qualitativo molto poco costante, perché ottenuti da un organico creativo interessato a temi importanti e molte volte incapace di smarcarsi dalla loro declinazione più scontata e grossolana, quella in grado di intercettare con furbizia la grande utenza attraverso storie brevi e intense ottenute dalla triangolazione di azione, sesso e fantascienza. È nell’analisi dei singoli episodi che emerge la frequente assenza di raffinatezza nella scrittura: nel disegno generale la serie infatti aggancia bene il suo tema portante - la complessità che nasce dal contatto tra uomo e tecnologia -, ma nel piccolo, quando passa in rassegna grandi nodi del contemporaneo (dalla violenza sulle donne all’etica delle intelligenze artificiali, dal razzismo nell’esercito all’ambiguità del progresso) non riesce a delineare discorsi tematici concreti.
Love, Deaths & Robots vince quindi nella misura generale perché pone una grande domanda – dov’è la linea di confine per l’uomo, qual'è la forma della svolta? – intuendone la complessità e abbracciando la meraviglia del suo mistero, ma perde nella collezione di risposte banali e superficiali, condannate da una brevità il più delle volte inabile a farsi colpo di fulmine sintetico e rivelatore, aforisma concettuale disarmante, perfettamente assimilabile e scevro delle pesanti lungaggini che in più casi caratterizzano la narrativa seriale di “prestigio”. L’esperimento è riuscito a metà, al netto comunque di un’animazione ispirata, sempre in grado di riprodurre a livello formale il contenuto della sua storia, ora con i contorni dolenti del rotoscope, ora con la sgraziata tenacia del fotorealismo, ora con la poetica dell’animazione in due dimensioni.
Restano impresse comunque le immagini di alcuni dei corti più riusciti, a riprova della possibile intensità di una scrittura costretta a costruire fascinazioni centrifughe (perché tese alla continua evasione verso un mondo illimitato) sotto la pressione del limite. Episodi come "Il vantaggio di Sonnie", "Il dominio dello yogurt", "Buona caccia", "La notte dei pesci" e "Dare una mano" sono frammenti di una narrativa di fantascienza ispirata, che sceglie l’orizzonte di un pessimismo occasionalmente contraddetto da un romanticismo speranzoso. Le loro intuizioni narrative sono esaltanti sul piano dell’intrattenimento e lucidi nel ragionamento dei contenuti, la loro animazione è intuizione formale incordata al tono del racconto. Dalla visione delle immagini allora emerge il senso, la vertigine del momento fantascientifico, l’investimento emotivo che esplode dal contatto tra lo sguardo, in affondo sulla superficie digitale, e la narrazione, in emersione dalla profondità della mente dell’autore e dai circuiti del supporto. Qualunque esso sia.