Di MUBI e del nome del cinema
L’esperienza filmica al tempo delle piattaforme over-the-top può essere ancora esperienza della Storia?
[A partire da alcune questioni teoriche preliminari presentiamo il nostro SPECIALE MUBI, una galleria critica ed emotiva di film selezionati dalla piattaforma OTT più cinefila della rete].
Il nome della rosa, il nome del cinema. Nel 1980 Umberto Eco chiude il suo primo romanzo rielaborando una citazione del monaco benedettino Bernardo di Cluny: «stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus», che in italiano significa «la rosa originaria esiste solo nel nome, ci restano soltanto nudi nomi». Una frase che ai più ricorda lo shakespeariano «a rose by any other name» ma che di fatto va interpretata in senso opposto: per Shakespeare infatti l’essenza della rosa è in grado di sopravvivere immutata nel tempo e, così come Giulietta, conserva le sue qualità anche se viene chiamata con un altro nome; per Eco al contrario tutto cambia e ciò che è stato sopravvive alle forze della Storia solo nelle forme della nuda denominazione, coordinata epistemologica soggetta a tensioni sincroniche e diacroniche che ne riscrivono l’identità. Di qui il nome della rosa, a indicare quel che di un’idea e di un fatto resiste al tempo, pur mutando. Di qui il nome del cinema, per chiederci cosa resta e cos’è che invece sta cambiando, rapidamente, sotto i nostri occhi.
Arte giovane e novecentesca, il cinema nasce e si afferma in un contesto culturale in cui la riflessione estetica è già ampiamente codificata; filosofi, critici e intellettuali di vario genere possono usufruire fin da subito di un vasto armamentario di strumenti e prospettive per studiare l’ultimo arrivato, e questo fa sì che la storia del cinema diventi nel giro di pochi anni anche storia del pensiero sul cinema, in un percorso che mescola teorie e pratiche con maggior intensità e frequenza rispetto a quanto accaduto nelle altre arti. In questi cento e più anni quindi non solo muta il cinema, nelle sue cifre tecnologiche e sociali, ma anche il pensiero riguardo la sua essenza, l’impalcatura via via estetica, filosofica e politica che interroga la natura mercuriale del dispositivo ponendo periodicamente l’inesausta domanda: che cos’è il cinema? cosa intendiamo oggi con il nome del cinema? Ma se il quesito è intrinseco alla storia stessa del mezzo oggi il suo peso ontologico appare di ben altra portata, considerato l’orizzonte digitale del mondo contemporaneo e il nuovo ruolo, pervasivo e frammentato, che le immagini esercitano in quella struttura del sentire (Williams/Jameson) plasmata attorno a noi dagli stessi mass media digitali. La definizione forse più calzante di quest’insorgenza mutante la offre Henry Jenkins, quando parla di cultura convergente per descrivere l’insieme sincretico di pratiche e logiche con le quali l’informazione viene oggi gestita contemporaneamente da media diversi attraverso la lingua franca del digitale, grazie alla quale le reti di comunicazione si attivano come inneschi acidi attorno all’individuo dissolvendone l’identità.
In questo nuovo assetto un ruolo pivotale lo svolge quindi il cinema, che in un mondo iperreale intessuto di convergenze mediali e schermi multipiattaforma, immagini frammentate e reti globali, vede rivoluzionati i suoi vecchi apparati di produzione, distribuzione e fruizione, dissolti in un magma informe da cui emergono e si rimodellano costantemente nuovi usi e consumi culturali. Tra questi spicca per urgenza e diffusione la rivoluzione intavolata dalle piattaforme over-the-top (OTT), la cui logica di visione on demand riassume in sé molte delle aporie e potenzialità dei nostri tempi digitali. Questo editoriale ha quindi due scopi: anzitutto porre alcune questioni teoriche relative alle OTT e all’iconosfera di cui sono espressione; infine, avviare da queste uno speciale monografico in cui, con un fuoco di fila di riflessioni cinefile, teoriche, emotive, attraverseremo trasversalmente il catalogo di MUBI. La scelta è dettata dal fatto che MUBI, tra le più promettenti e incisive piattaforme OTT, ha deciso in pieno Lockdown di ampliare la sua usabilità cinefila aggiungendo alla nativa modalità In cartellone (per cui ogni giorno un film viene caricato e lasciato sulla piattaforma per un mese in un ciclo a continua evoluzione) una nuova sezione denominata Videoteca, grazie alla quale è possibile accedere a un secondo e più ampio catalogo coerente con l’identità cinefila del servizio.
Sulle specifiche di MUBI e sull’importanza che ha nel panorama mediale contemporaneo torneremo meglio a breve; intanto facciamo un passo indietro e mettiamo a fuoco l’argomento scardinando la domanda teorica per eccellenza (che cosa è oggi il cinema?) per sostituirla, sulla scia delle più recenti riflessioni di Casetti (La galassia Lumière), con un’altra che sia più utile e pertinente al percorso: che cos’è oggi l’esperienza filmica? e cosa identifica e legittima tale esperienza? esiste l’esperienza filmica over-the-top, e se esiste si nutre delle stesse coordinate e categorie che determinano i precedenti usi culturali?
Come ogni fatto culturale anche l’esperienza filmica è il risultato di forze storiche e sociali, e in quanto tale segue l’evolversi del cinema manifestando modelli divergenti e spesso coesistenti. In un primo periodo la visione di un film era necessariamente connessa alla presenza in sala, e da questa interazione spaziale discendeva una serie di comportamenti e abitudini che disciplinavano e rendevano riconoscibile quel tipo di esperienza. Con il moltiplicarsi delle possibilità tecnologiche la fruizione di un film si scardina dalla presenza in sala, si creano altri tempi e luoghi di visione; l’esperienza filmica allarga i propri confini in parallelo all’aumentare dell’affordance dello spettatore, ovvero alla sua capacità di intervenire attivamente sulla visione controllandone in autonomia velocità, ritmo, mezzi di utilizzo e programmazione. A riguardo Casetti parla di rilocalizzazione dell’esperienza filmica, un termine che richiama la frammentazione e reinvenzione delocalizzante tipica del lavoro post-fordista per la quale l’azione lavorativa (occidentale) perde la centralità spaziale della fabbrica per disperdersi in nuove strutture più individuali e puntiformi. Contemporaneamente il venir meno della sala comporta anche una perdita di verticalità istituzionale e riconoscibilità sociale: guardare brani di un film rimontato dal proprio smartphone mentre si viaggia sull’autobus è ancora un’esperienza filmica? «Oggi si diventa spettatori filmici cercando il cinema dove non era mai stato» scrive Casetti, sottolineando come l’assenza della sala possa spingere il consumo cinematografico nel terreno del consumo mediale generale, non più specificatamente audiovisivo. Non si tratta quindi di chiedersi se un film pensato, creato e distribuito via smartphone sia ancora cinema, quanto piuttosto se la sua fruizione possa ancora essere intesa come esperienza filmica. In piena convergenza digitale è evidente che la crisi postmoderna dei grandi racconti di cui parla Lyotard non riguarda solo le ideologie direttrici dell’azione politica e sociale, ma anche le coordinate del nostro agire culturale. A fronte di questa massiccia rilocazione, chi può dire se sto esperendo un film o compiendo un consumo mediale d’altro genere? Chi/cosa certifica e legittima cosa è esperienza filmica rispetto a cosa non lo è? Anytime, everything, everywhere sono le parole chiave del consumo culturale di oggi, reificate da quella crescita esponenziale dell’affordance spettatoriale permessa dai nuovi dispositivi e piattaforme e fonte di un rapporto col medium ben lontano dalla passività del vecchio accomodamento in sala. Tuttavia a un tale e inedito livello di libertà (o meglio autonomia scopica) non corrisponde ancora una forma cristallizzata di esperienza che possa dirsi collettivamente definita.
Delle tre keyword citate quella che ci sembra più interessante nel riflettere sulle modalità di visione on demand è everything, ogni cosa, iperbole con la quale si fa riferimento alla crescente offerta di titoli messa a disposizione dai maggiori player sul mercato. Netflix, Prime Video, Disney+ in particolare garantiscono l’accesso a migliaia di contenuti audiovisivi, con un’immediatezza e una disposizione liquida del materiale che non ha eguali nella storia del cinema. Tuttavia, di fronte a questo enorme supermercato dell’immagine, dove ogni forma audiovisiva è accessibile e convive con i suoi simili in un’organizzazione spaziale rizomatica pressoché priva di percorsi interni, gerarchie o tassonomie di sorta (se non per le profilazioni degli utenti offerte dai big data e qualche labile disposizione per genere), non rischiamo forse che l’esperienza filmica over-the-top si trasformi in consumo mediale indifferenziato, visione compulsiva e frammentata che di quei testi e quelle immagini perde ogni percezione spazio-temporale, con conseguenti bias cognitivi e crisi di comprensione storico-culturale?
Sintetizzando il pensiero di Baudrillard, il sociologo Krishan Kumar scrive che «i mezzi di comunicazione hanno creato una nuova realtà elettronica in cui immagini e simboli hanno cancellato dalle nostre menti l’idea che al di là di tali immagini e simboli esista un mondo oggettivo». Di fronte un’accessibilità, ripetiamolo, inedita per quantità e qualità del materiale audiovisivo offerto, alla quale non corrisponde però alcuna tassonomia gnoseologica che esuli da logiche di marketing e binge-watching, non sembra lontano quell’estasi della comunicazione per cui (sempre Baudrillard) «il nostro mondo diventa un mondo di pura simulazione, la generazione per immagini di un reale senza origine o realtà: un iperreale». Ben lontani da qualsivoglia posizione luddista, ci sembra importante considerare le magnifiche potenzialità offerte dall’esperienza filmica over-the-top come l’occasione per riflettere sulla più generale epistemologia simulacrale che tali modalità di accesso e organizzazione dei testi filmici rischiano di portare con sé. Cioè un impoverimento dei nostri usi culturali che si manifesta anzitutto nella crisi delle categorie – prettamente moderne – di spazio e tempo, da cui sole discende quel senso della Storia che è forse l’antidoto necessario affinché, anche se immersi in questa navigazione orizzontale di archivi digitali on demand (e nell’esperienza filmica OTT che ne consegue), si possa ancora interagire con testi densi e non simulacri privi di corpo. Solo così la visione e l’esplorazione significherà ancora «un rapporto denso con la realtà, ma anche la partecipazione del soggetto al “senso della storia”» (Malavasi).
Kevin Lynch, uno dei grandi urbanisti del Novecento, è autore di un testo intitolato L’immagine della città in cui viene introdotto il tema della figurabilità, ovvero «la qualità che conferisce a un oggetto fisico una elevata probabilità di evocare in ogni osservatore un’immagine vigorosa». Secondo Lynch infatti ogni cittadino possiede il suo spazio urbano in quanto immagine, e da quest’esperienza deriva una mappatura mentale che permette a ciascuno di regolare la propria interazione con lo spazio urbano. Di conseguenza una città ordinata è altamente figurabile e tale caratteristica rende il cittadino più conscio e felice del proprio ambiente; una città deve favorire «la facilità con cui le sue parti possono venir riconosciute e possono venir organizzate in un sistema coerente» perché solo così sarà leggibile e permetterà a chi la esperisce di ricavare da essa un sistema di immagini coerente e sufficiente a orientarsi.
In questo bisogno di cogliere nella città un «vigoroso significato espressivo» ritroviamo la necessità moderna di organizzare il sapere secondo gerarchie spazio-temporali che rispondano a un linguaggio unico, complessivo e sovraordinato. La figurabilità dello spazio urbano come esempio concreto di grande racconto, direbbe Lyotard, che nel nostro discorso possiamo paragonare a una grande storia del cinema organizzata secondo categorie critiche utili a conservare quelle coordinate spaziotemporali (quindi storiche) che caratterizzano ogni film e ne permettono una fruizione consapevole, ragionata. Sennonché i grandi archivi on demand di Netflix & co. tutto sono fuorché disposizioni ordinate e culturalmente guidate dei film ivi accessibili; al contrario la loro architettura digitale è volutamente caotica, evita la chiarezza espositiva e sfugge a uno sguardo dall’alto, ha poco della tassonomia biblioteconomica e molto del cestone 3x2 offerto dagli autogrill attraversati di passaggio tra un casello e l’altro. Recuperare Lynch ci è utile quindi per notare come, a contrasto, a dominare l’orizzonte mediale OTT non sia la razionalità integrale della figurabilità moderna ma la logica postmoderna del frammento, per la quale «collassano le distinzioni gerarchiche ed emerge un pluralismo senza centro e senza gerarchie, senza egemonie né criteri di gusto dominanti, del tutto funzionale alle esigenze dell’industria culturale» (Canova). Ancora Lyotard ci dice che «il sapere è materia di giochi televisivi» e questo accade quando il consumo globalizzato di schegge mediali diventa il trionfo ultimo del feticismo della merce e dell’uso culturale ridotto a consumo. Perché guardiamole queste infinite library di titoli e licenze, avventuriamoci e perdiamoci in questo labirinto orizzontale in cui ogni testo fa caso a sé, ogni film è esperito al di fuori del suo spazio-tempo originario: mai come in questo momento abbiamo avuto accesso – facile, immediato, a costo relativamente contenuto – alla storia del cinema, eppure a questa crescita di accessibilità corrisponde un appiattimento del materiale che rischia come effetto contrario di annullarne ogni storicità.
Già Jameson negli anni Ottanta parlava di crisi della cartografia cognitiva e descriveva il tempo postmoderno come un eterno presente composto da frammenti infinitamente ricombinabili perché ormai scevri di ogni ancoraggio storico. «Oggi sperimentiamo il mondo non tanto come una lunga esistenza che si svolge nel tempo, quanto come una rete che collega punti riavvolgendosi nella sua stessa matassa» (Foucault), e non per compilare riferimenti e citazioni casuali (frammentarie anch’esse…) quanto per sottolineare quanta importanza hanno le categorie storiche di spazio e tempo nell’organizzazione del sapere, e quanto arido diventi l’uso culturale di una tradizione artistica se la sua Storia viene ridotta a schegge autonome prive di contesto, frammenti disposti su scaffali digitali come fossero momenti di un eterno presente sempre accessibile, sempre coerente, sempre leggibile. Perché bisogna dircelo, questa intelligibilità universale dell’immagine promessa dall’archivio on demand è un miraggio operato dalle forze mercificanti dell’industria culturale, le cui strategie di vendita e consumo ipertrofizzate dal digitale hanno come scopo quello di approvvigionare un masticamento di immagini che sia il più possibile continuo e ciclico. Nell’architettura di Netflix & co., sistematicamente rizomatica e priva di figurabilità, centri di senso, coordinate verticali e organizzazioni gerarchiche, tutte «le tradizioni stilistiche si appiattiscono, diventano tutte uguali, tutte indifferentemente consumabili o imitabili con la massima disinvoltura» (ancora Canova). Spazio e tempo si dissolvono, e anche il film più famoso della storia del cinema diviene sede di contrasti e faide più o meno politicizzate, più o meno centrate, comunque ruotanti attorno a una generale crisi percettiva suscitata dal dato storico.
Quindi, come rispondere a questa tendenza? Quali antidoti mettere in campo che non siano anacronistici e sterili? Come evitare che l’esponenziale crescita del consumo on demand appiattisca lo spazio e il tempo dei nostri gesti culturali in un presente eterno, liscio rizoma digitale il cui cyberspazio si fa pericolosamente vicino all’iperreale popolato da simulacri, cioè immagini che non richiamano nient’altro che altre immagini, teorizzato da Baudrillard? E cosa c’entra MUBI?
Fondata dall’imprenditore e matematico Efe Çakarel (MIT e Stanford come alma mater, da lì diversi anni alla Goldman Sachs in curriculum), MUBI nasce nel 2007 con il nome The Auters e l’intento di affermarsi sia come social network cinefilo sia come distributore streaming di film d’autore. Fin dall’inizio quindi convivono nella piattaforma strategie di coinvolgimento social (feed personalizzato, profili aziendali sulle altre reti sociali, forum interno e possibilità per gli utenti di collaborare alla blogosfera cinefila tramite recensioni, liste di film, voti) e accesso on demand. Tuttavia, rispetto alle OTT concorrenti, MUBI si distingue offrendo ai suoi utenti una breve finestra temporale per la visione dei film (i 30 giorni messi a disposizione dalla modalità In cartellone); una tempistica vincolante, che limita l’affordance spettatoriale e aggira la logica postmoderna del supermercato infinitamente accessibile e frammentato, rivalorizzando così l’azione di scelta (tanto individuale, del singolo utente che è costretto a organizzare le proprie visioni prima che scadano e non deve più perdersi in un oceano rizomatico di titoli, quanto collettiva, dello staff che è chiamato in prima persona a costruire giorno dopo giorno una linea editoriale che unisca esigenze di identificazione del brand, familiarità spettatoriale con i titoli amati, e scoperta di nuovi film altrimenti nascosti e spesso difficilmente reperibili). Al momento in cui si scrive la comunità cinefila di MUBI ammonta a “10.307.931 cinefili”, un numero aggiornato in tempo reale ed esibito sulla pagina Feed della piattaforma, a sottolineare quanto sia rilevante per questa OTT alimentare il senso di comunità tra gli abbonati. Che i suoi utenti si sentano parte di qualcosa infatti è particolarmente importante per una piattaforma che in termini di numeri raccoglie il 5% degli abbonati Netflix – un confronto chiaramente impari e utile soltanto a chiarire come MUBI agisca coerentemente al modello della cosiddetta coda lunga (Anderson), secondo la quale in tempi di frammentazione dell’offerta culturale livelli alti di consumo possono essere raggiunti non più grazie a pochi best seller ma attraverso molti prodotti più specifici e particolarmente validi per ridotte porzioni di pubblico. MUBI quindi non può né vuole essere una piattaforma g-local di scala mondiale al pari di Amazon o Disney+, il suo modello economico ragiona su una scala totalmente diversa che punta a una specificità editoriale basata sull’incontro di logiche social e inedite dinamiche d’archivio. Del resto gran parte del marketing di MUBI ruota attorno alla conservazione del concetto di limite, di film “pochi ma buoni” offerti in una precisa finestra temporale, e smaschera le contraddizioni intrinseche a un’offerta concorrente che punta su un’overdose testuale spesso fonte di smarrimento per i suoi spettatori (oltre che innesco per tutte le questioni gnoseologiche sin qui dibattute).
MUBI come soluzione all’iperreale quindi? Ultima difesa e bastione contro l’avanzare del Nulla che trasforma la storia del cinema in una galleria di simulacri? Non proprio ovviamente, di certo non solo. Perché anzitutto con questa logica del frammento e di una nuova organizzazione della conoscenza dobbiamo comunque farci i conti (a meno che non si voglia dismettere l’intera Internet e i suoi flussi orizzontali); secondariamente perché non è di soluzioni che siamo in cerca ma di alternative, di sistemi culturali che spingano il sistema OTT verso nuovi e più intensi orizzonti di alfabetizzazione all’immagine, azione educativa, diffusione di film altrimenti invisibili e/o inaccessibili. In questa sede non possiamo approfondire il discorso relativo alle potenzialità educative insite nella tecnologia dello streaming on demand, ma è necessario sottolineare come il terzo elemento decisivo del modello MUBI – dopo il ruolo della scelta e la conservazione del limite – sia la presenza di un ampio paratesto critico all’interno della piattaforma, un’infosfera di articoli, video-saggi, recensioni, analisi, liste, interviste e presentazioni di film che ha lo scopo di guidare lo spettatore offrendo «critical maps, passways and illuminations to the worlds of contemporary and classic film». Così recita l’abstract di presentazione di Notebook, la pubblicazione quotidiana con cui MUBI condivide (con tutti, non solo gli utenti) prestigiosi strumenti critici atti a conservare l’identità dei film, la loro storicità, la loro specifica esistenza come prodotti culturali da esperire come parti di un tutto.
Prima di concludere – quella che è evidentemente una porzione incompleta di una traiettoria culturale più vasta – torniamo un momento alla Videoteca, a quella nuova modalità di fruizione il cui inserimento ha innescato questo lavoro. Apparentemente una sezione simile, ennesimo archivio di titoli su scaffale, si pone in aperta contraddizione con il ruolo resistente e culturalmente determinante che abbiamo descritto per MUBI; eppure bastano pochi momenti di navigazione per rendersi conto che non siamo davanti a una sorta di Netflix bis per cinefili. La Videoteca infatti è studiata per essere estensione naturale della filosofia critica che anima MUBI , ne è reificazione cosciente perché la sua offerta è ugualmente studiata, catalogata, organizzata secondi criteri critici e storici che inspessiscono il nostro rapporto con l’immagine ed esemplificano la portata distributiva di un sistema che rende visionabile un tipo di cinema incompatibile con le precedenti forme di consumo. Certo non mancano le contraddizioni intrinseche al mezzo, come la scarsa comunicazione riguardo arrivi e dipartite di titoli o il potenziale senso di vertigine che incombe nella fruizione delle OTT dalle library più ampie, ma è indubbio che volendo immaginare il futuro del cinema e della sua fruizione si possa trovare in MUBI qualcosa a cui guardare con curiosità, studio e fiducia. Ed è per questo che abbiamo deciso di selezionare, ciascun redattore liberamente, un elenco di titoli presenti al momento (ma non è chiaro per quanto…) nella versione italiana della Videoteca, per dedicare a ciascuno di essi uno scritto che esuli dalla semplice recensione e guardi tanto al più generale contesto audiovisivo fin qui tracciato quanto al rapporto emotivo e biografico che ogni redattore ha con il film scelto. Perché la Storia non è solo questione di spazi e tempi storicizzati, di date, luoghi, contesti passati, ma è anche la somma di tante piccole storie, l’incasellarsi vivo e argentino di ricordi, legami, emozioni suscitate dal film e in esso ancora contenute. Anche da qui passa la via di fuga dal simulacro: dalle nostre vite, dal nostro passato, da ciò che è entrato e ancora vive nel fondo dei nostri occhi.
Buona lettura, e buone visioni.