42 66 Le Origini del Male
Mino Bonini torna a rivestire l'ambiguo ruolo della vittima-carnefice in fuga dai propri demoni
Mino Bonini è una figura che non passa certo inosservata. Chi ha visto Infidus può avere dimenticato la trama ma non il suo protagonista, quel ragazzone sovrappeso con il corpo rivestito di tatuaggi e l’aria triste. Dal lungo di Giulio De Santi, 42-66 Le Origini del Male non prende solo l’attore principale ma l’intera atmosfera. Entrambi i film cominciano con Bonini appena uscito di prigione, dopo avere scontato una pena per omicidio, e ruotano intorno alla produzione e al consumo di snuff movie. Sebbene non esistano oggettivi personaggi positivi, Bonini indossa il ruolo del vendicatore. Un giustiziere in un mondo ingiusto come può essere quello delle borgate, dove la condizione periferica e il sintomatico degrado sono tangibili a livello urbano e umano. L’allocazione dei personaggi in un contesto ben definito è uno dei punti a favore delle due opere, che potremmo definire gemelle. A differenza della maggior parte degli horror underground, non si parla inglese ma un italiano romanesco che non assume più i toni agrodolci di tanta commedia all’italiana figlia del boom economico ma il suono aspro e arrogante di un vivere da bestie, dove la legge della giungla ha portato a fenomeni come la Banda della Magliana.
Sebbene il titolo del film di Dario Almerighi, 42-66 Le Origini del Male, possa far pensare a un horror religioso, specie se si considera che la somma dei primi due numeri dà 6 che accostata al successivo 66 genera la più celebre delle cifre tra i cultori del demonio, si tratta invece di un racconto dal taglio realistico. L’unico elemento soprannaturale è la personificazione del demone che affligge Mino Bonini, interpretato dalla sorella Stefania Bonini, già spalla dello stesso in Infidus. I due firmano insieme parte della colonna sonora, mentre il solo Mino è autore del soggetto e della sceneggiatura, quest’ultima in collaborazione col regista. Lo script è in grado di catturare l’attenzione per buona parte del film col suo susseguirsi di incessante violenza. Nell’incipit, dove tre ragazzi brutalizzano due coetanee in un bosco, appare manifesto il richiamo a Morituris ma la presenza catartica dell’ignoto non si paleserà mai e la storia preferirà percorrere strade più terrene che, come ci informa una didascalia finale, sono tratte da eventi realmente accaduti. Purtroppo con l’avvicinarsi della resa dei conti, la sceneggiatura appare sempre più approssimativa e non tutte le dinamiche, comprese quelle psicologiche, appaiono chiare. Il film si lascia seguire a patto di non porsi troppe domande.
Restano inevitabili i limiti tecnici per una produzioni a basso budget, sia nell’audio (dove a volte le battute dei personaggi sono coperte dalla musica) che nell’immagine (troppo buia in fase di ripresa e schiarita in postproduzione, generando artefatti). L’errore, ammesso che sia tale, più divertente è il cambio di look della fidanzata del protagonista da un’inquadratura all’altra: dopo un bacio a tradimento le spunta una frangetta e i capelli mutano da biondi a rossi. Nonostante ciò, 42-66 Le Origini del Male funziona più di tanti altri prodotti similari perché non pone limite al mostrabile. L’effetto truculento è la ragione d’essere del film di Almerighi. Il cinismo e la totale mancanza d’empatia non sono prerogative dei cattivi ma elementi costanti in qualsiasi personaggio maschile. Solo le donne appaiono come vittime senza essere allo stesso tempo carnefici. La loro posizione subordinata rispetto ai predatori non ha alcuna rivendicazione sessista ma è unicamente frutto di differenze, fisica e numerica, tangibili. In 42-66 non è importante sopravvivere al singolo maniaco ma la salvezza si può raggiungere solo fuggendo dal mondo che lo ha generato.