“Mi si dirà che gli zingari rubano;
è vero, hanno rubato anche in casa mia.
[…] Però io non ho mai sentito dire
che gli zingari abbiano mai rubato tramite banca.
Questo è un dato di fatto.”
Fabrizio De Andrè, Princesa e i rom
Ashkali, Khorakanè, Kalopeli, Rudari, tribù zingare rom, dimenticate al suolo ad asciugare, ombre di sole tratteggiate dalla luna quando fiera illumina la notte, che “a forza di essere vento hanno perso la stessa ragione del viaggio: viaggiare”. Senza Stato e senza terra, loro, che quest’ultima la conoscono veramente bene. Esuli ed estranei sempre. Stranieri in ogni stato. Massimo D’Orzi e la sua Gigante Cinema ci raccontano la storia di questo popolo migratore, proprio di ogni territorio, nazione, confine di Stato, ma lontano e distante, pronto a partire da ogni guerra, in fuga dalle atrocità, loro, che anche quest’ultime, specie durante il secondo grande conflitto, le hanno conosciute bene. Una donna bosniaca, dopo la guerra carsica, così racconta: “Noi abbiamo capito quello che stava accadendo di tragico in Ex-Jugoslavia quando abbiamo visto i rom partire e che la guerra stava finendo quando l’abbiamo visti ritornare”.
Massimo D’Orzi c’è stato in quel territorio, e ci torna, per raccontare la vita e il pensiero di chi la guerra non la considera, non l’accetta, per chi si schiera solo con la libertà. Il punto di partenza è questo. La risposta arriva subito. “Noi la guerra non l’abbiamo mai voluta”, confessano. Un necessario rigurgito verso l’ostilità. Una condanna verso la tirannia di morte e di odio, di idealismi e di santi da seguire. Un inizio lontano il loro, provengono dall’India, attraversando i secoli ed attraversando la storia dell’Europa e del Mondo. Sempre lontani dalle guerre come stormi di persone in fuga al primo sparo. Fiutando il sangue prima degli altri. Con questa iniziale domanda, il regista entra all’interno delle loro abitazioni, mangia con loro, nascondendosi nei chiari scuri di una lampada che illumina una tavolata, punto di vista tra di loro, nel momento del riposo serale dove tutti son riuniti. Qui nasce la millenaria cultura rom. Si tramanda tutto tranne la lingua, la si conosce senza che nessuno te la insegni. Uomini scolpiscono il rame, intorno bambini ed il vecchio maestro del rame che insegna, tramanda. Il taglio documentaristico dato si distacca dal resoconto, dalla spiegazione fenomenologica e storica di un’etnia, ma si intaglia su un tessuto di immagini, domande, giochi, silenzi, vita quotidiana ed unione familiare. Le immagini partono da un monte su un fiume che canta grevi baldanzose sonorità gitane (ottimamente interpretata da Hadzovic Ruzdija) e prosegue tra i volti, all’interno delle case del villaggio. Il regista sceglie di raccontare questo popolo inafferrabile attraverso le immagini che lo descrivono, meglio di qualsiasi definizione.
La nostra paura irrazionale di questo popolo anch’esso irrazionale, alimentata da una visione notturna del popolo rom, si scioglie in un girotondo evocativo, alimentato da un’immagine vicina, tangente ed intima fatta di primi piani e non distanziata, lontana, come quella documentata da un entomologo che guarda in un teleobiettivo. Lo sguardo della camera si frappone tra una madre ed un figlio, tra due sorelle, tra un vecchio e un padre, non perdendo nessuna delle espressioni di calore comunitario che caratterizzano un volto, un’espressione. Registrando espressioni clandestine di chiaro scuro, tra la luce fluida di una candela. Il regista ci immerge nel tempo variabile della loro identità, lambisce un istante cristallizzandolo in un’immagine per poi riconsegnarlo al tempo, ai mille anni al mondo dei rom. Già apparso sugli schermi italiani nel 2004, il film ritorna a otto anni di distanza per accompagnare l’uscita in tutte le librerie del cofanetto (libro + DVD). Un vento balcanico che torna a soffiare nelle sale italiane e noi, che torniamo a vederlo soffiare contenti.