Varda par Agnès
Fuori concorso a Berlino 2019. “Il cinema è il mezzo per fermare il tempo? Non sono d’accordo: è il mezzo per accompagnarlo”.
È imprendibile, Agnès Varda. Quando pensi che la regista novantenne si sia fermata, abbia raggiunto un porto, all’improvviso scopri che è ancora in movimento, che sta andando da un’altra parte. All’inizio di Varda par Agnès lei è ferma, seduta: tiene un incontro su di sé sopra un palcoscenico teatrale, davanti a un vasto pubblico. Alla fine scompare in una tempesta di sabbia. In mezzo c’è una videoconfessione che è un percorso dentro il suo cinema iniziato 64 anni fa, con l’esordio La Pointe Courte del 1955, girato a Sète dove oggi gira Kechiche. Ma non solo: il viaggio non si limita al recinto limitante del cinema, essendo Varda anche (e prima) fotografa e videoartista. Ed è un percorso solo in senso cronologico: si tratta piuttosto di un movimento frastagliato e oscillante nelle sue opere come specchio di un pensiero, che si consegna volutamente alla divagazione. Un momento è più importante di un altro? Lei si sofferma su quello, senza alcuna democrazia narrativa, per esempio su un uomo che rovista negli scarti del mercato e parla a lungo con Agnès. Un istante, semplicemente, rilevante: d’altronde con Agnès Varda la Nouvelle Vague non è mai morta, anzi è più viva che mai, dunque le gerarchie e il formato tradizionale del racconto sono orpelli da evitare.
Detto così, però, Varda par Agnès potrebbe sembrare un auto-documentario sul cinema di Agnès Varda. Non proprio. A partire dal titolo, Varda secondo Agnès ma anche - in un possibile gioco di parole - lo sguardo secondo Agnès, che pone simbolicamente prima il cognome (la regista) e poi il nome (la persona), in una torsione di significato che lo rende intimo: è Agnès che racconta Varda e il suo modo di vedere-pensare. Quindi Varda par Agnès è anche un film di finzione, apertamente diretto dalla regista quando dialoga con altri e le viene richiesto di tornare sulle tappe della carriera: ecco che, colpo di genio, il carrello con cui è girato Senza tetto né legge prende vita oggi, con Agnès e Sandrine Bonnaire sedute su un carrello che scorre mentre evocano la realizzazione di quel film.
Per i cinefili è una passeggiata nelle pellicole dell’autrice, sottovalutata in Italia malgrado il Leone veneziano, da lei stessa commentate a svelare i meccanismi che le sottendono, in una mescola di teoria e pratica, tra adesione al canone e clamorose fughe in avanti: come la camminata di Corinne Marchand in Cleo dalle 5 alle 7, ripresa integralmente in rottura della convenzione che prevede lo stacco di montaggio. C’è la perenne attrazione per il documentario, a cui sempre si torna, lo dimostra nello stesso film la scena dell’artista di strada incontrato casualmente dalla regista (“Il caso è sempre stato il mio miglior assistente”). Ci sono le dissolvenze colorate de Le Bonheur, arditamente sperimentale, che chiudono le scene non in bianco o nero bensì in rosso e giallo. C’è l’incontro con Jane Birkin in Jane B. par Agnès V., titolo che fa rima con questo, e c’è il lungo lavoro nei musei che produce - tra i molti - l’installazione Potatutopia, opera sulle patate che fu alla Biennale 2003.Ma c’è anche dell’altro. Perché il moto è vorticoso e resta sempre qualcosa che sfugge, il non previsto, l’inaspettato che fa capolino. In Visages Villages Varda bussa alla porta del suo amico Godard, che però non le apre. Qui accoglie una classe di bambini per visitare la videoinstallazione dedicata al suo gatto e poi, all’improvviso, mentre tutti se ne vanno uno torna indietro a rivedere la proiezione. Perché? “Al cinema bisogna andare da soli”, risponde. Ecco: nulla è totalmente dirigibile, la vita e l’arte non sono cerchi chiusi, per questo il tempo non si può fermare ma solo accompagnare, e l’accompagnamento prevede il movimento.
Agnès Varda ama la spiaggia, il luogo del cinema francese per eccellenza (Truffaut, Rohmer, Ozon...). Lo aveva mostrato ne Les plages d’Agnès e sulla spiaggia torna qui, manomettendola per esigenza narrativa e costruendo un’installazione sotto i nostri occhi: mancano gli uccelli e allora dei bimbi portano sagome di uccelli per completare la scenografia. Nella sabbia, infine, Agnès si dissolve in un momento che a prima vista può apparire esiziale e definitivo: ma nella consapevolezza della fine c’è uno strano alone di felicità che la circonda, perché l’essere felice è una delle chiavi della donna e dell’artista. “I’m a joyful feminist”, ha detto in conferenza stampa a Berlino, per poi smentire categoricamente un giornalista che l’ha definita una leggenda: “Non sono una leggenda, sono ancora viva!”. E così, a ben guardare, anche quella sembra una sparizione gioiosa, l’ennesima mossa inattesa, un’uscita dal campo dello sguardo. Non per andare sotto la sabbia ma, ancora una volta, da un'altra parte.