Alaska

Il film di Cupellini si cala nel riflesso di due anime leggere, un girotondo umano e sentimentale di tragedie e reazioni.

La freddezza di un’insegna blu al neon che si illumina. Una scritta, un luogo, un sogno, una riscatto: Alaska. Come la storia, incredibile e magica, di una nevicata in Polinesia, evento spiazzate capace di consegnare la corona ad un folle, facendolo diventar Re di un ecosistema avverso, un profeta nella terra dei sogni realizzati.

Alaska di Claudio Cupellini è un film che racconta la storia di due anime, tragiche e reali, che si stringono, si riconoscono e si accettano reagendo ad una serie di eventi inaspettati quanto involontari, snodi di vita reale e di cambiamento che sovvertono il prima ed il dopo, generando tramite la forza di un effetto domino realtà diverse, da sovvertire, da combattere, alle quale resistere reagendo insieme. Carambole umane che si legano in sentimenti forti e duraturi ben oltre i cambiamenti attuati dall’energia motrice del destino, tra fortune e sfortune personali che concedono felicità ad uno per poi toglierla all’altro. Fausto (Elio Germano) e Nadine (Astrid Bergès Frisbey) s’incontrano sul terrazzo di un lussuoso albergo parigino. Avvolti da un panorama di tetti si riconoscono come esiliate anime alla ricerca della loro identità, sradicati dalla loro appartenenza territoriale ed emotiva, sono due destini fragili che si scelgono, si incastrano nella parte ognuno lascia vuota, nella complementarietà dell’altro. La stessa lingue francese se nella prima parte è un modo per farsi capire, per comunicare con l’altro, nella seconda parte del film – ambientata a Milano - diventa una lingua segreta che sono loro in parte conoscono, una dialettica verbale in sottotraccia rispetto all’italiano che gli altri parlano: un modo per appartenersi, per riconoscersi e per stare insieme. Fili che convergono in un nodo per ripartire distanti, fili spezzati che non si riallacciano, Fausto e Nadine tessono il tracciato madre che li porta a stare insieme, oltre tutto, nonostante tutto. Il regista ci suggerisce che al di là delle connessioni con le altre fibre secondarie quello che rimane del loro rapporto è pur sempre la matassa che con il tempo entrambi sono riusciti ad annodare, depositando l’intreccio del sentimento che – nell’incapacità di riconoscerlo in loro stessi - per l’altro provano.

Due grandi interpretazioni racchiuse in personaggi forti, che a volte rimangono impantanate nella struttura e nella caratterizzazione data loro dalla sceneggiatura, una griglia di scrittura stretta e fin troppo invasiva rispetto al temperamento – naturale - delle loro interpretazioni. Il Fausto di Elio Germano – che si è, da grande attore, scrollato definitivamente di dosso il poeta recanatese – recupera la sue identità primaria consegnandoci un’interpretazione di un personaggio quotidiano (come il Claudio de La nostra vita) mai edulcorata, sempre asciutta ed allo stesso tempo furente, che non raggiunge mai il terreno dell’artificiosità restando razionale e calibrato. Un personaggio tanto sfaccettato quanto reale, un attore in carne ed ossa che riesce a normalizzare la sua recitazione adottando, affrontando e superando il tanto temuto paradosso di Diderot: e d’altronde, lontano dai grandi personaggi letterari classici, quale difficoltà maggiore per un attore se non quella di interpretare una aspetto quotidiano di sé stessi? Fausto e Nadine si amano, collidono, si scontrano, ognuno legato all’altro attraverso quella parte del carattere proprio che riconoscono nella metà mancante, quell’aspetto divergente che ognuno di noi possiede e che allo stesso tempo odia, ma che comunque ne vien ghermito.

Se in Una vita tranquilla, Cupellini, lavorava attraverso la suspense legata ad un passato che ritorna, creando una situazione pericolosa per l’equilibrio famigliare nel presente, qui il regista costruisce un ménage à trois tra due personaggi e la vita che affrontano, nel rapporto tra loro ed il destino che li porta a reagire ad essa. Nell’incapacità di tenerla per le redini e nell’impossibilità di controllarla, è la sceneggiatura che molto spesso controlla – arginando lo sviluppo emotivo - ed occlude una storia che voleva farsi raccontare con più libertà; e se la prima parte, tutta giocata sui riflessi dei due personaggi che si generano nelle immagini sulle superfici riflettenti (vetro, vetrina) è molto funzionale ed adatta al narrato, nella seconda ed ultima parte spesso si cade in una brodaglia impantanante, in una stitichezza narrativa ed evolutiva dopo un lungo pasto nuziale, dovuto ad una scrittura fin troppo schematizzata, angolare e geometrica, da risultare spigolosa rispetto all’energia che conteneva e che poteva essere orchestrata al meglio lasciando più libero arbitrio all’evoluzione della storia stessa. Un film obiettivamente molto buono, con due ottime interpretazioni, ma che si lascia ancorare dal rigore della sua scrittura. E se nella scrittura de Una vita tranquilla il rigore è il giusto dosaggio per una narrazione volutamente e necessariamente controllata all’interno di tempi propri del genere di riferimento, qui spesso si rivela troppo artificiosa per l’energia d’accumulo e per la libertà espressiva di un film che tende a rappresentare una burrascosa storia d’amore.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 25/10/2015

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