Roma 2015 / Full Contact
La passione di uno sguardo virtuale e distante che cerca di ricreare un contatto con il mondo attraverso le "strade perdute" della propria immaginazione.
Deserto del Dakota, il pilota di droni Ivan è alienato dal suo lavoro, porta a termine le varie missioni e lentamente si scollega dalla realtà circostante. Dopo aver bombardato una scuola, impazzisce, fugge dal mondo e vaga nelle sue allucinazioni alla ricerca di una redenzione.
Paradossalmente dentro Full Contact di David Verbeek non c’è contatto con l’altro, solo un’incolmabile e virtuale distanza. La gabbia in cui si trova Ivan lo tiene lontano da tutti, inficiando persino una possibile storia con la donna madre/lap dancer Cindy. La mdp segue a mano la robotica andatura mentre attraversa il desolato deserto, prima di rinchiudersi nel container dove lo aspetta il target del giorno, un target che può essere visto solo dall’alto e il cui contatto è inevitabilmente mediato da uno schermo.
Relegato in uno spazio mentale angusto, esasperato in rigide geometrie, il pilota ha come unico canale di comunicazione un dispositivo, che sia una chat durante lo svolgersi delle missioni o un computer per dare un volto alle sue vittime.
Fin qui tutto bene, Verbeek, alla sua opera prima utilizza le nuove regole belliche del XXI secolo e traccia una mappa disumanizzante che va oltre il contesto specifico per riflettere, ad ampio raggio, sulla contemporanea distanza di percezione verso il mondo. Insomma, un mondo soggettivo, autoreferenziale, senza veri contatti con l’esterno.
Seguendo un modello narrativo alla Strade perdute, Ivan, perso in riva al mare come un Robinson Crusoe o un Cristo nel deserto, immagina una nuova vita per superare il senso di colpa. Ci ritroviamo così in Francia con il protagonista che lavora nel deposito bagagli di un aeroporto e incomincia a praticare il K1. Chiamiamolo un ritorno al corpo, sottolineato da un sound design più fisico e meno ovattato, con il conseguente ribaltamento della condizione iniziale. A questo si aggiunge l’incontro con una nuova Cindy meno dannata e soprattutto con le vittime del bombardamento, queste ultime legate proprio alla disciplina marziale che Ivan imparerà.
Detto fatto, il contatto potrà diventare full e sovvertire la potenziale violenza in un gesto riconciliatorio e di perdono.
Con il tragico avvenimento che segnerà l’equilibrio del protagonista, il film prende una deriva alquanto rischiosa e si lancia in suggestioni poco credibili. La potremmo definire una questione di stile, enfatica ed esasperata, che inanella un susseguirsi di sequenze autonome che vogliono stupire lo spettatore con le ridondanti e retoriche scelte visive. Insomma, pur nel tentativo di far parlare suoni e immagini quasi fossimo davanti a un’opera di video-arte o a un’istallazione, Full Contact si cristallizza troppo nella volontà di veicolare uno sbandierato messaggio simbolico che come risultato blocca le suggestioni proposte. Certo, un’opera che ha coraggio da vendere, è giusto riconoscerlo, ma destinata a bruciarsi con le sue stesse scelte formali.
Andando nello specifico: prendiamo il vagare del pilota vicino al mare, che alterna la sua progressiva regressione tra granchi uccisi e poi vomitati, apparizioni di canidi presso un fuoco notturno e improvvise fuoriuscite uterine dalla profondità delle acque o da un’oscura grotta. In sottofondo non mancano stringhe sonore che marcano ulteriormente lo stato alterato dell’immaginario rappresentato. Tralasciando le soluzioni in sé, spesso ai limiti dell’incosciente parodia, quello che crea una secca distanza nella visione è la sensazione di essere davanti a un contenitore così pieno nella forma e vuoto nell’anima. Non c’è tragedia e immersione dentro di essa, ma solo un esercizio congelato sulla sua superficie. Peccato.