Roma 2015 Considerazioni finali / La festa immobile
Luci e ombre del primo anno di Monda, di certo la miglior "Festa" vista finora ma anche una kermesse non riuscita, che ancora una volta ci porta a interrogarci sul senso della Fondazione Cinema.
Considerato il ruolo intellettuale svolto da Antonio Monda tra Italia e New York (Open Roads, Le conversazioni, Viaggio nel cinema americano), la sua nomina a direttore artistico della Festa del Cinema di Roma è sembrata fin da subito una scelta intelligente, non soggetta a sbandieramenti e attestazioni di natura eminentemente politica ma anzi coerente con l’obiettivo (disgraziato) puntualmente riproposto dalla Fondazione Cinema per Roma, ovvero tornare all’incarnazione festaiola abbandonando per l’ennesima volta la denominazione di festival. Potendo osservare ora l’esito finale di tale scelta, l’approccio messo in campo da Monda si è confermato un tentativo consapevole di concretizzare tale direttiva, ma tra luci e ombre hanno certo prevalso quest’ultime, rendendo impossibile parlare di un’edizione riuscita.
“Il cinema è sempre una festa” è stata la tag-line decisa per la decima edizione della kermesse romana, ed ecco così sparire giurie e concorsi, premi e lustrini, per una selezione meno attenta al tappeto rosso e più all’incontro diretto tra pubblico e personalità cinematografiche, una soluzione questa su cui Monda ha insistito particolarmente e che di certo ha dato gli esiti migliori.
Non c’è dubbio infatti che i numerosi incontri abbiano segnato uno dei successi della Festa/festival, anche se lo stesso non si può dire di tutte le altre attività collaterali. Accanto al bel percorso fatto su Antonio Pietrangeli, alla presenza di validi documentari sul mondo dello spettacolo e alla piacevole offerta di alcuni film della vita, apertamente privi di collocazione specifica, diversi dubbi suscitano le rassegne dedicate a Pablo Larraín e alla Pixar, in cui la prima è parsa soltanto un’elaborata cornice alla presentazione di El club e al fulminante incontro con il regista, mentre la seconda un fan service totalmente gratuito, privo di qualsivoglia cornice critica e sbagliato nell’offerta (praticamente ogni film ha fatto un imbarazzante vuoto di pubblico).
Al centro di queste direttrici la Selezione Ufficiale, priva di categorie interne e di premi, di ospiti forti e titoli di punta, se non fosse per quei Zemeckis, To, Baumbach, Haynes e Sono, che di certo hanno confermato tutti le aspettative ma attorno ai quali poco o niente ha sorpreso. Si è andati per generi e paesi diversi, schivando tendenzialmente il cinema più autoriale e meno ricevibile dal grande pubblico, ma a parte pochissimi titoli (Eva no duerme e soprattutto il grandioso Lo chiamavano Jeeg Robot) tutte le scommesse della selezione si possono dire fallite, con film al meglio dimenticabili e di poco impatto. Se a questo risultato aggiungiamo la focalizzazione estremamente americana dei film scelti e la loro dubbia pertinenza temporale (così a ridosso dall’uscita Zemeckis è stata di fatto un’anteprima stampa aperta al pubblico), il parco titoli portato dalla Festa solleva certo più dubbi che certezze.
E tuttavia, nonostante i problemi sin qui elencati, il primo dei tre anni della gestione Monda è sembrato comunque il migliore di tutte le incarnazioni festaiole del passato, anche se certo tale primato non era cosa difficile da raggiungere considerato il vuoto che ha caratterizzato la direzione Detassis degli anni passati. Basta però questo debole traguardo a rendere la kermesse romana una manifestazione riuscita e dotata di senso? A nostro avviso no, anzi il primo anno di Monda ci è sembrato vittima di un paradosso per il quale più si sono andati centrando alcuni obiettivi di un’edizione festaiola e più i limiti endemici dell’evento ne hanno minato da dentro il senso e la riuscita.
Il primo e più ovvio problema è sempre lo stesso da anni, la maledetta sede dell’Auditorium Parco della Musica, una location che sembra farsi beffe della direzione teoricamente popolare spacciata da questa decima edizione. Chiunque abbia frequentato la Festa/festival infatti sarà consapevole tanto dell’isolamento spaziale quanto della focalizzazione sociale di cui si fa carico l’Auditorium, emanazione di una Roma radical-chic lontana dall’autenticità di un territorio nel quale rimane disperso un patrimonio culturale che ancora non si riesce a trasformare in pubblico. Fare un festival (ancor di più una festa) infatti serve a poco se non ci si preoccupa di costruire un pubblico, di alimentare una domanda culturale che guardi alla manifestazione con curiosità non solo mondana. E invece è proprio in questo che continua a fallire la Festa/Festival, con un’incapacità imbarazzante a parlare a diversi strati sociali che l’Auditorium evidenzia e grida in tutta la sua inutile prosopopea borghese.
In conclusione è difficile guardarsi indietro e non rimpiangere la partenza di Marco Müller, l’unico ad oggi ad aver saputo gestire la direzione romana con una progettualità atta a costruire un’identità e di conseguenza un pubblico di riferimento. Oggi piuttosto la Festa/festival sembra sì indirizzata sugli opportuni binari di una rassegna di lusso indorata di ospiti e recuperi collaterali, ma considerato l’esito e il disinteresse pubblico che lo contraddistingue sembra ben lontano il traguardo di un’autentica festa mobile capace di stimolare nel profondo la propria città. A questo punto torna lecito chiedersi, tutto questo vale la sua spesa? O forse la kermesse, e l’intera Fondazione Cinema che di esso si nutre per sopravvivere, appare sempre più un vuoto baraccone spinto solamente dall’autoconservazione?