Holy Spider
Attraverso la storia (vera) di un serial killer nell'Iran di inizio millennio, Ali Abbasi riflette sul confine sottile tra individuo e collettività
A prima vista potrebbe ingannare l'apparente semplicità di un film come Holy Spider. Eppure, dietro all'ultima opera del regista iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi – presentata in concorso al 75° Festival di Cannes e ora in sala – c'è ben più del semplice desiderio di esportare, tra indagini, pedinamenti e sostenuti sguardi nell'abisso, generi e modelli già codificati dentro a un contesto inedito ed esotico. In questo noir persiano (ma girato in Giordania) ispirato alla storia vera di Saeed Hanaei, detto Il Ragno, padre di famiglia e reduce di guerra che tra il 2000 e il 2001, nella città sacra di Mashad, uccise, soffocandole con il loro stesso velo, 16 prostitute in nome di una fantomatica “jihad sulla decenza” volta a ripulire la società iraniana, a stupire non è infatti tanto, o solo, il resoconto disturbante di un fatto di cronaca, ma il ritratto agghiacciante di un sistema istituzionale e di una (parte della) società civile che con quei crimini simpatizzarono apertamente.
È proprio la particolarità del contesto a fare di Holy Spider un film a suo modo unico, sebbene perfettamente inserito nelle logiche del filone. Perché il mondo che la giornalista Rahimi (Zar Emir-Ebrahimi, vincitrice del premio per la migliore attrice) svela nel corso della sua indagine è una realtà che con (l'idea dietro a) quei crimini va a braccetto. Quasi alla maniera del Dahmer di Ryan Murphy (e alla sua inevitabile natura "politica"), il film, dopo averci lasciati per metà del tempo fianco a fianco col febbrile desiderio di dominio e prevaricazione del suo serial killer, si concentra infatti sulle colpe della società in cui il mostro ha potuto nascere e proliferare. Una società non semplicemente coinvolta in quanto manchevole o difettosa, ma letteralmente connivente, se non addirittura ispiratrice.
Non c'è nulla, del resto, che Saeed (Mehdi Bajestani) dichiari a processo che possa dirsi davvero estraneo ai valori di chi lo giudica, nulla che non venga da un retroterra condiviso fatto di fanatismo e misoginia. È proprio la misoginia, d'altronde, il vero cancro di Holy Spider. Un sentimento ben più antico e radicato di una morale religiosa che ne è semplice emanazione, se non pretesto. Mentre Rahimi si ritrova sempre più sola, schiacciata da uomini più o meno colpevoli e da donne asservite o ridotte al mutismo, diventa infatti chiaro come a fare davvero paura sia il maschilismo endemico nascosto dietro alla repressione e ai deliri religiosi del martire mancato. Una mentalità, questa, che coinvolge tutti, dai giudici ai rappresentanti delle forze dell'ordine, dall'uomo della strada a chi si professa progressista, tutti accomunati dal desiderio, esplicito o latente, di imporsi sull'altro sesso in ogni modo possibile.
È qui, al di là delle sequenze degli omicidi e dei facili riferimenti al genere (da Psycho a Zodiac, passando per Maniac), che Holy Spider diventa un horror a tutti gli effetti. Un film lontano, certo, dallo spirito e dalle contaminazioni fantastiche dell'opera fin qui più celebre di Abbasi, Border – creature di confine, eppure proprio a questa intimamente collegato. Come se quel confine labilissimo che nel precedente lavoro del regista divideva umano e soprannaturale, fosse tornato, ora, nell'Iran di inizio millennio, in altra forma, pronto a disfarsi e a far confondere tra loro orrori individuali e collettivi, mostro e società. Rendendo sempre più difficile capire dove cominci l'uno e finisca l'altra.