Almost Dead

L'impossibilità di resistere al contagio raccontata tra survival e zombie-movie

Ogni periodo storico ha i suoi temi ricorrenti. Le mode, intese come modelli estetici predominanti, si adattano alla mentalità vigente e non viceversa. Il cinema post-11 settembre ha perennemente ribadito i concetti di isolamento, contagio e perdita della memoria, intesa come rottura col passato. L’affermarsi di ciascuna di queste paure ha uno stretto legame con il mondo reale ed è perciò analizzabile attraverso i parametri di discipline quali la sociologia, l’antropologia o la storiografia. Detto altrimenti è da sprovveduti credere che un film sia soltanto un film e perciò negare il suo carattere probatorio di quel che siamo. Almost Dead non è uno zombie-movie. L’opera di Giorgio Bruno è sopra ogni cosa uno scatto d’epoca, la nostra.

L’individuo bloccato in un luogo ostile, da Buried a Mine, può prima di tutto apparire un ottimo escamotage della produzione per limitare il numero di location e attori. In Almost Dead la protagonista, Hope, si risveglia in un’automobile fuori uso circondata da esseri contaminati. Il suo unico mezzo per comunicare con altri soggetti dotati di facoltà di linguaggio sembra essere il cellulare, esattamente come nei due titoli sopracitati. Se in prima istanza il dispositivo mobile avvicina due interlocutori lontani, il suo uso smodato inverte i termini di causa effetto. La tecnologia in grado di annullare le distanze diventa peculiarità dell’assenza di vicinanza, in definitiva dell’isolamento. La patologia non dipende più dallo spazio circostante ma rimane invariata in ogni luogo. Non è un caso se la vittima si risveglia su un veicolo originariamente destinato allo spostamento e ora emblema della stasi. Attraverso un finestrino, Hope osserva gli altri. Si palesa qui una dinamica da social network: chi esiste al di là del vetro appare anonimo, diverso e potenzialmente pericoloso. La deambulazione atassica dei morti viventi rispecchia l’analfabetismo funzionale dilagante in rete a cui la protagonista reagisce con un disturbo antisociale di personalità. Da prima non si fa scrupoli a chiudere fuori dal suo mondo, l’angusto rifugio, l’unico soggetto che appare dotato di umanità e successivamente reagisce con isteria al medesimo trattamento inflittole da un terzo individuo. L’incoerenza e l’egoismo sono parti integranti di un tragico processo di alienazione dove la perdita d’identità ne rappresenta il fulcro. La nuova condizione di Hope, a risveglio avvenuto, è di totale privazione dei ricordi e dunque di una propria coscienza di sé. Il suo io va formandosi attraverso gli input di conversazioni telefoniche in una totale dipendenza dal giudizio altrui. Esistere non è più legittimato dai propri sensi ma subordinato al vaglio di terzi. Per esserci è necessario apparire ma ciò allontana inevitabilmente dalla lieve naturalezza di ogni principio vitale e trasforma chi si mostra in un morto che cammina. Il clima di legittimazione reciproca porta a un’ineluttabile diffusione del contagio. Se la trasmissione avviene concretamente tramite il contatto, la sua propagazione è annunciata già nel posarsi dello sguardo. Dalla sua postazione Hope non vede esseri senzienti e le eccezioni hanno vita breve. Rimasta sola, persino lei, la Speranza, è destinata a morire.

Immagine rimossa.

Almost Dead non si propone di spaventare con la suspense né di ripugnare con lo splatter. L’enfasi della musica è tesa a sottolineare la drammaticità della condizione umana, il suo abbrutimento, le sue responsabilità, l’incapacità di rialzarsi e il depressivo accartocciarsi su sé stessa. L’unica giustificazione che i sopravvissuti sanno raccontarsi è che colpa del governo, dimenticandosi puntualmente di vivere in democrazia. Sono personaggi talmente mediocri che se potessero guardare Almost Dead ci vedrebbero giusto un film con gli zombi.

Autore: Mattia De Pascali
Pubblicato il 02/05/2017

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